Globalizzazione: pericoli/opportunità

Dinanzi alla miseria dell’offerta politica che ha condotto ai recenti esiti elettorali, ci si interroga su riferimenti ideali e visione di futuro capaci di riaccendere speranze, mobilitare le menti e le passioni.

Nel vasto mosaico di opinioni e proposte, il tema della globalizzazione vede schierarsi una folta schiera di avversatori della più diversa origine.

Alla globalizzazione vengono addebitati la distruzione delle economie locali, la dilagante dicotomia tra grandi ricchezze e crescita della povertà, l’impoverimento del ceto medio, la perdita di identità culturale dei popoli, il cambiamento climatico e via elencando.

Da ultimo, dopo la pandemia e con l’esplosione della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, la dipendenza da fornitori di energia (ma anche di fondamentali materie prime alimentari) lontani, egoisti e cinici, tale da innescare effetti moltiplicatori dell’inflazione e da far schizzare il costo delle bollette e del carrello della spesa.

Gli effetti sono tutti veri, evidenti e brucianti. Ma davvero la globalizzazione ne è causa? 

Lungo la storia millenaria della civiltà, raggiungere altri mondi, incontrando altre culture e traendone insegnamenti ed esperienze, è stato motore di progresso. Certo ne sono venute le nefandezze del colonialismo, la diffusione di virus prima sconosciuti ai popoli che ne caddero vittima, il susseguirsi di guerre per la conquista dell’egemonia, il controllo di territori e ricchezze. Tuttavia, alla fine, a prevalere, ad affermarsi sul lungo periodo, sono state la crescita di conoscenza e abilità, la disponibilità di materie prime che, intrecciandosi con grande duttilità, hanno portato a nuove scoperte e un complessivo innalzamento del potenziale scientifico ed economico del mondo. In modo diseguale, ma a somma innegabilmente positiva.

L’enciclopedia Treccani così definisce la globalizzazione: Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.

La globalizzazione altro non è che la fase suprema della disponibilità dello scambio esteso a tutto il pianeta. Fermarla significa frenare (o, addirittura, fare arretrare) il progresso.

Se ne deve dedurre che il diavolo si traveste da progresso?

O piuttosto il problema è il segno della globalizzazione?

Un processo naturale di feconda contaminazione tra culture è stato piegato da una logica dominante alla supremazia del mercantilismo esasperato che tutto divora, nella famelica smania di consumo che ha conquistato menti e comportamenti sull’intero pianeta. L’imperativo era produrre quantità maggiori a costi decrescenti, vendere senza tregua rendendo obsolescenti i prodotti nel minor tempo possibile per sostituirli con altri dall’analoga funzionalità ma resi appetibili da innovazioni minimali. Una competizione sfrenata, nella quale mastodontici player del mercato dettano le regole, con livelli di concentrazione del potere e dei profitti via via più accentuati, mentre i consumatori subiscono il fascino del mantra dell’avere: se non hai questo o quel prodotto non sei nessuno.

Risultati: masse accecate dalla rincorsa al superfluo, affermazione del consumo usa e getta, creazione di agglomerati di potere sovranazionale, progressiva e rapida distruzione dell’equilibrio ambientale.

Lo strumento che ha governato questo perverso processo è la finanziarizzazione dell’economia. Per accelerare la concentrazione di ricchezza, creando proventi per immensi investimenti che rafforzano il potere di chi ne dispone, il denaro genera denaro, in modo sempre più sganciato e indipendente dalla base materiale dell’economia. In parallelo, veicolando una distribuzione internazionale del lavoro che specializza i ruoli produttivi, privilegiando quelli a più elevata intensità tecnologica e i servizi rispetto alle produzioni primarie e secondarie, il valore del lavoro manuale viene sminuito e si determinano le condizioni per pagarlo sempre meno.

Qui stanno i nodi che provocano gli effetti malevoli imputati alla globalizzazione.

Per combatterli ci sono due strade, diverse e alternative tra loro.

La prima è tentare di tornare indietro. Opporsi alla globalizzazione rinchiudendosi nel provincialismo, puntare sull’autosufficienza, recuperando produzioni che sono state decentrate all’estero, sostenendo i prodotti locali e cercando di farseli bastare. In parallelo alla limitazione dell’immigrazione, al rifiuto di accogliere culture nate oltre i confini, al nostalgico richiamo di bei tempi passati.

Questo egoismo miope vive nell’ottica della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre e, in particolare, nella sua versione più coerente, della forza preminente nella formazione di destra-centro che ispira e innerva il nuovo governo italiano. Tipico aver varato il Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Nella concezione della premier e del suo ministro, sovranità alimentare significa espandere le quantità di produzione nazionale fino a renderla sufficiente alla domanda nazionale del settore. Rifiutando gli accordi della Politica Agricola Comune (e sottacendo che anche l’Italia ne riceve ingenti sussidi per il mondo contadino nazionale), retrocedendo le politiche di incentivo alle produzioni ecosostenibili e a quelle per il miglioramento dell’igiene alimentare, della salubrità individuale e collettiva. Una logica corporativa ispirata da una visione autarchica. Non per caso, in linea con l’ideologia che accompagnò la militanza dei suoi leader.

Non diversamente saranno affrontate le politiche ambientali, quelle del lavoro, della sanità, dell’istruzione, della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologica, della cultura. Senza dimenticare il versante dei diritti civili e i meccanismi di funzionamento della democrazia rappresentativa.

La via alternativa è imporre un cambiamento di direzione al processo di globalizzazione. La nuova attenzione che si impone alla ridefinizione delle filiere delle produzioni, dall’energia, all’agricoltura, all’industria, con il recupero di capacità produttiva in ambiti comunitari se non nazionali, permette di restituire enfasi al valore dell’economia materiale, facendo retrocedere la rapacità del capitalismo finanziario. Grandi investimenti sono necessari. Gli investimenti pubblici devono tornare a essere leve di sviluppo restituendo un compito (e un potere) di indirizzo al mercato, dando priorità agli interessi collettivi su quelli privati e individuali. Energia, innovazione scientifica e tecnologica, sanità, infrastrutture, istruzione e formazione, risanamento idrogeologico, ma anche rifacimento del patrimonio edilizio, risanamento urbanistico, guida a nuovi sistemi di mobilità sono terreni che richiedono finanziamenti pubblici, quali promotori e attrattori di investimenti privati dentro obiettivi socialmente definiti e controllati.

In tale riallocazione di risorse e obiettivi c’è lo spazio per ridare dignità al lavoro, a partire dal lavoro manuale, che deve crescere in qualità avvalendosi delle potenzialità offerte dalla scienza.

L’esempio, tra i tanti, ma rilevante per la sua centralità, è proprio quello delle politiche alimentari. L’obiettivo di offrire a tutti cibo sano e sostenibile non potrà essere raggiunto estendendo produzioni e superfici coltivate a quanti oggi operano nel settore, ma sostenendo l’agricoltura di qualità, quella che unisce il benessere del consumatore alla salvaguardia dell’ambiente.

Il cibo, come da tempo ci insegna Slow Food, deve essere buono, pulito e giusto.

Buono: ingredienti grezzi prodotti nel rispetto della natura, dei produttori, della salute dei consumatori

Pulito: prodotto con metodi naturali che garantiscono varietà, biodiversità, a basso impatto ambientale nell’intero ciclo di vita, in ambiente sano.

Giusto: non contraffatto, non adulterato, non sofisticato. Ottenuto con un’equa distribuzione del valore lungo tutta la filiera di produzione

Il cibo sano e sostenibile privilegia la qualità come valore, anche pagandolo più del prodotto industriale di massa. Si combatte la fame nel mondo potenziando le colture (e le culture) locali e non omologando metodi di produzione finalizzati a moltiplicare quantità a prezzi più bassi, foriere di diete malsane e di spreco.

Le immense sfide che attendono l’umanità non hanno dimensione puntuale. Il cambiamento climatico non può essere fermato dentro un determinato confine, la salute collettiva non si tutela chiudendo le frontiere.

Sono sfide da affrontare con l’intelligenza e la passione dell’universalismo. Si vinceranno soltanto mettendo a frutto il meglio che le tante culture sanno esprimere, favorendone l’integrazione. Coniugando politiche dall’orizzonte lungo e una progressiva trasformazione dei comportamenti. Perché non esistono soluzioni locali, ma la soluzione non arriverà senza la somma di interventi puntuali dentro un quadro di interventi sistemici complesso e saggiamente coordinato.

La globalizzazione non è il nemico della giustizia sociale.

Essere per l’apertura verso il mondo è battersi per il progresso in ottica solidale.

Essere per la chiusura è il rifiuto del futuro e l’abdicazione al governo del cambiamento.

Questa antinomia, forse, in questo nostro Ventunesimo Secolo, è la versione della contrapposizione ideale tra progressismo (orientato a una rivoluzione gentile) e conservatorismo (con le sue derive reazionarie).

Quando l’efficienza si traduce in bellezza

(Impressioni su Milano)

A pochi passi da piazza Gae Aulenti, vicino ai grattacieli e al Bosco Verticale

Da molti anni non andavo a Milano.

Non ne avevo un ricordo positivo. E, da buon torinese, guardavo con sospetto l’atteggiamento dei milanesi, che sentivo guascone e supponente.

Poi, invece, avevo letto della riscossa della capitale economica d’Italia, degli interventi urbanistici, del recupero delle aree e dei progetti di sviluppo.

Ero incuriosito.

Finalmente la pandemia s’è allentata e ho potuto andare a verificare sul posto se e come questa città sia cambiata.

In pochi giorni l’ho percorsa nelle sue dorsali principali, ho girato il centro, raggiunto luoghi topici per misurarne spirito e realtà.

Ne ho tratto un’impressione nettamente favorevole.

Una città che funziona, che sa assumere una dimensione umana, votata all’ottimismo, capace di coltivare l’arte e la bellezza.

Diversi i fattori che determinano un’efficienza dal volto umano.

Un sistema di trasporti pubblici eccellente che consente di raggiungere ogni direttrice con rapidità e comodità, imperniato sulle linee di metropolitana che si intersecano per poter passare, senza uscire dai corridoi sotterranei, dall’una all’altra o per spostarsi sulla rete ferroviaria.

La pulizia delle strade, dei monumenti, dei palazzi. Quasi incredibile in una grande città.

Il traffico ordinato, il controllo discreto ma fermo delle forze dell’ordine nei luoghi di maggior frequenza.

La qualità dei pubblici esercizi, dove la modernità si sostanzia nella ricerca della salubrità, nella varietà e spesso originalità del cibo e delle bevande, nella snellezza e puntualità del servizio.

La dinamica delle iniziative artistiche e culturali, diffuse in tutta la città a coprire un’amplissima gamma di espressioni.

La costruzione di quartieri modernissimi con la salvaguardia di spazi a verde e di aree per passeggiare senza l’oppressione dei palazzi a incombere sopra la camminata. La nuova area intorno a piazza Gae Aulenti, in questo, è esemplare.

Ricchi di opere, ben organizzati e attivi i musei e le aree espositive.

Questo insieme di condizioni, cui si accompagna la vivacità economica – a Milano l’economia che gira si percepisce a occhio – genera comportamenti virtuosi. Le persone appaiono serene, non concitate, perfino gentili oltre ogni aspettativa.

La chiave di questo successo urbano me l’ha spiegata un ragazzo che gestisce un moderno bar affacciato sul Naviglio Grande.

In sintesi, ha sostenuto che a Milano convivono persone che arrivano da ogni parte del mondo, le esperienze si scambiano, tutti ne imparano e le differenze esaltano i talenti.

L’interculturalità come sbocco naturale e generoso della globalizzazione radicata in una disciplina urbanistica che crea la metropoli vincente, moderna e bella.

Il modernismo non viene declinato, come si rischiava anni prima, come competizione aggressiva, nel segno di tecnicismi che premiano finanza e marketing. Siamo alla fase in cui si tende a realizzare il successo senza smarrire l’umanità e i valori esistenziali.

Credo, immagino – ma un po’ m’è sembrato di vederlo nei gruppi che affollavano i viali sui navigli – che siano soprattutto i giovani a guidare questa conversione epocale. A dimostrare che sviluppo, sostenibilità e realizzazione di sé possono stare insieme, che trovare il proprio posto nel mondo non significa sgomitare e schiacciare gli altri, ma condividere conoscenza, innovazione, speranza.

Un raggio di futuro.

A farci capire che se lì è possibile, lo deve essere anche altrove.

Verso nuovi modelli di produzione, di scambio, di consumo, di vita.