Riflettendo verso Pasqua

Ogni anno, quando ricorrono date dall’alto valore simbolico, cerco di farne occasione per tradurre in pochi versi il senso che, volta per volta, vorrei condividere, al di là del calendario e dei riti.

Pasqua è celebrazione di Resurrezione, vuol rappresentare la possibilità di rinascita, che per i credenti è il riscatto del Figlio di Dio che con la sua ascesa offre la speranza a tutti i fedeli, mentre per chi non è cristiano può interpretare la possibilità di vincere le avversità, la speranza di pace e di un mondo più giusto ed equilibrato.

Quest’anno l’arrivo della Pasqua si colloca in un momento storico attraversato e turbato da correnti grige e perigliose.

Continua una guerra che credevamo assurda e destinata a rapida conclusione.

Le tempeste economiche generano ondate di panico e colpiscono duramente le condizioni di vita della maggioranza della popolazione a livello mondiale.

La divaricazione tra i pochi che accumulano immense fortune e chi vive del proprio lavoro, o neppure ne ha uno, si allargano e divengono baratro dal quale si sprigionano rabbia, frustrazioni, discredito delle istituzioni, sfiducia nella democrazia.

Il web implode, facendo da grancassa per le chiusure tribali di opposte frazioni e questo, insieme al degrado dei media, rende quasi impraticabile il confronto tra opinioni e concezioni diverse.

Si scambia la globalizzazione con il nemico dell’uguaglianza e si rinverdisce il mito del successo come metro per misurare il senso della vita di ciascuno.

La fine dell’effetto ascensore dello sviluppo – quello che garantiva a ogni generazione condizioni più favorevoli di quella che l’aveva preceduta – accende rimpianti su passate età felici che, se le analizzassimo con obiettività, tali non erano. Così alimentando il fascino del sovranismo che altro non è che rifiuto del progresso e logica dello struzzo.

Nel panorama appena sintetizzato, per me la Pasqua della rinascita dovrebbe prima d’ogni altra cosa indurre a riflettere, a valutare per ricominciare a discutere e cercare insieme soluzioni e politiche utili a salvare l’umanità ritrovando il valore della fratellanza e l’armonia con il pianeta che ci ospita. Valorizzando le differenze, senza paura delle nuove frontiere della scienza, fondando un nuovo umanesimo. Con la testa nel Ventunesimo secolo, aprendo spazio alle visioni dei giovani, che crescono coscienti di quanto sia folle dilapidare risorse per avere, nella ricorsa all’effimero che consuma il tempo e brucia il futuro.

Nasce da qui la mia poesia per questa Pasqua.

Con l’augurio che sia di serenità, riflessione, fratellanza.

Barbara Baraldi – Il fuoco dentro

Janis Joplin: un romanzo di furia e desideri perduti

Janis Joplin, per la mia generazione, è un mito. Una goccia incandescente di voce rock nell’universo del rifiuto di un mondo chiuso e bigotto, vecchio. Eravamo giovani. Anche chi, come me, non era un beatnik, sentiva in quella musica di ribellione il richiamo di cieli aperti e di libertà, il rifiuto del conformismo, un anelito di fratellanza e il diritto a vivere la fantasia.

In parallelo c’era il risveglio della politica, vissuta come movimento inteso a rovesciare la cultura, ad affermare la giustizia sociale, a cancellare segregazione, razzismo, guerra, sopraffazione dei forti sui deboli.

Nella parabola di Janis Joplin vedemmo, quando giunse alla fine, quanto era difficile affermare nella realtà quelle belle speranze, quelle utopie giovanili.

Come lei, Jimi Hendrix, Jim Morrison: tutti morti – forse per overdose, ma non è certo fosse così – nel giro di pochi mesi, tutti appena ventisettenni.

Nel 1970, da giovane studente, ricordo che il 19 settembre il quotidiano Lotta Continua uscì con la foto in bianco e nero a sovrastare questa didascalia: Jimy Hendrix. Suonava la chitarra come un Dio. Morto per overdose. Con lui i padroni hanno vinto.

Ecco: lo spirito con cui si saldava la voglia di rivoluzione e la musica dei giovani.

Vedendo annunciare il libro dedicato da Barbara Baraldi alla ribelle texana che lasciò presto la sua città, quasi fuggendo, fremetti nell’attesa. Il tema mi affascinava e conosco la bravura letteraria dell’autrice, eccelsa narratrice di thriller, capace di creare personaggi duri e disperati, prede dei loro fantasmi.

Ma una domanda accompagnò l’attesa: cosa aveva spinto una narratrice dell’oscuro ad accostarsi a una rockstar di un tempo diverso dal suo?

Resto senza risposta. La nota con cui Barbara Baraldi chiude il libro parla di una scintilla e una sfida. Ma non dice perché Janis. Salvo spiegare, a posteriori, quanto sia stata conquistata dalla vita di questa diva / perdente, lacerata tra l’ebbrezza del palco e la miseria delle relazioni, sentimentali e umane.

Con lei, dice l’autrice, è nato un senso di fratellanza, scavando orrori che sono ancora con noi: il bullismo, il disprezzo per la diversità, la grettezza, l’odio che secerne calunnie.

Così Baraldi ha raccolto tutto ciò che poteva parlarle di Janis: libri, documenti, musica, registrazioni, interviste, filmati.

Ha potuto scendere negli abissi della sua vita e sulle effimere vette del rapporto emotivo con il suo pubblico.

La penna della Baraldi sa attingere all’intensità dei momenti, alla profondità della solitudine, al desiderio autodistruttivo di scavalcare la negazione della felicità.

Con la medesima maestria letteraria dei suoi migliori thriller riesce a evocare la potenza e l’originalissima melodia di una voce inimitabile, quel canto che Janis ritmava battendo forte i piedi sui palchi e lanciando occhiate ammalianti sui musicisti che la accompagnavano, stregando il pubblico quando piegava la testa e le note sgorgavano, furenti e impastate di sentimento, dalla gola vellicata e urtata dall’alcool.

Non è un biopic.

Come rivela, Barbara Baraldi dagli elementi biografici ha ricavato un personaggio. Non era importante ricostruire una verità storica, ma far vibrare i contenuti dei desideri e delle realizzazioni che rimangono. Perché non stinge la sua musica e ancora vivono le imperfette, perdute e sognate, allegorie di ciò che credeva possibile.

Una biografia avrebbe dovuto inquadrare i fatti nella cornice storica, riflettere sui travagli di una generazione che voleva trasformare il mondo e solo in parte – certo non la palingenesi che allora pareva l’obiettivo minimo – c’è arrivato, infine disgregandosi in mille diversi ricoli.

Non è l’intento né la vocazione dell’autrice.

Il romanzo (perché così credo si debba classificare) è il racconto della dimensione di un personaggio scomodo ed emblematico.

Merita leggerlo non per riscoprire Janis – che i suoi tanti ammiratori già conoscono e tengono nel cuore – ma per attraversare con lei, nella versione che ci viene offerta, la sofferenza e l’esaltazione, i momenti di trionfo e le umiliazioni, la corsa verso la fine.

Da percorrere d’un fiato, dalla prima all’ultima pagina, con la tensione ininterrotta che è la cifra dello stile di Barbara Baraldi.

Versi che crescono a silloge – Declinazioni d’amore

Anche la mia prima silloge trova la sua prima presentazione pubblica.

Come ho risposto alle sollecitazioni di Franco Pulzone, che la introduceva, non mi sento un poeta.

I versi sono nati da emozioni del momento. Restavano lì, per me e talora per la persona cui erano dedicati. Finché decisi di raccoglierli, ordinarli, srotolare con essi la pellicola delle emozioni, i tempi dell’amore che mi attraversavano l’anima. Nacque la raccolta, vinse – con mio assoluto stupore – un importante concorso nazionale e divenne libro.

Parlarne, ripercorrere versi e pagine mi aiuta a svelare l’intelligenza del sentimento che mi spinse a cercare le parole per rendere senso e profondità di quel che provai.

Sempre subii il fascino della parola. Fare poesia – tentare, almeno, di farla – significa inseguire i fonemi che abbiano capacità di esprimere ciò che passa dentro e, insieme, diano suono al verso, nello sforzo di unire significato e bellezza.

Il dilemma semantico tra metrica e significante.

Mi sento più naturalmente un narratore.

Se e quando riesco a fare poesia continua a sembrarmi un meraviglioso travolgimento, nel quale la fantasia sfiora e illumina la realtà.

Di questo ho cercato di parlare nella presentazione a Viareggio.

Un estratto è riportato nel video cui si può accedere, sul mio canale Youtube, tramite il collegamento riportato qui sotto.

Le radici dell’ispirazione – Nero come la moda

Ogni presentazione fa storia a sé. Diventa un’occasione per scoprire aspetti legati al romanzo sui quali prima non si era riflettuto.

Alla Biblioteca Comunale di Viareggio, stimolato dal come sempre arguto Umberto Guidi, iniziai spiegando – forse a me stesso per primo – quale fosse la ragione per cui scrissi “Nero come la moda”.

C’era, al pari degli altri romanzi, il desiderio di inventare una storia, di far nascere e incontrare personaggi.

La trama poliziesca, o noir, come la interpreta Umberto Guidi, mi serviva, tuttavia, per coinvolgere i lettori su un tema di forte attualità: l’inquietante pervasività della comunicazione via social e il rischio che, attraverso la rete, siano operate manipolazioni delle opinioni e dei comportamenti degli utenti.

Ho cercato di rappresentare questa preoccupazione descrivendo un’operazione criminale all’interno del mercato della moda pronta.

Forse la chiave sta in una considerazione che ho fatto esprimere dalla mente del pool giudiziario che gestisce le indagini.

“C’è un confine sottile tra convincere e abbindolare. Per dare verità giuridica alla realizzazione della seconda ipotesi, agiremmo su capitoli penali assai labili e incerti.”

Perché, come spiego nella presentazione pubblicata sul mio canale Youtube (che si può vedere al link riportato sotto) due miti vano sfatati:

la privacy – in rete non è possibile difenderla, al di là delle garanzie legali formalmente rispettate;

la democrazia – vero che ciascuno può intervenire e pubblicare il suo pensiero, ma il valore del post (cioè l’effettiva capacità di diffondere e far condividere il proprio) dipende dal potere di influenza, consolidato da pratiche tecnologicamente evolute e da disponibilità di mezzi (finanziari, comunicativi, relazionali). Sicché uno vale uno, ma alcuni valgono multipli, incommensurabilmente più forti.

Il confine tra letteratura di genere e mainstream, come quello tra saggistica e narrativa, può essere sottile.

Scrivere (e leggere) per divertirsi, ma anche per interrogarsi sul presente e sul futuro.

L’inappellabile verdetto del sabatario

Questa è una storia vera, anche se pare una puntata di “Scherzi a parte”.

Ricevo una nota di addebito INPS per contributi da lavoro domestico riferiti al secondo trimestre 2017.

Davo lavoro a una domestica che licenziai il 31 marzo 2017, per la quale avevo regolarmente pagato tutti i contributi sino all’intero primo trimestre 2017.

Temendo le frequenti imperfezioni burocratiche, rispondo on line – compilando l’apposito modulo allegato all’addebito – ricordando di aver comunicato l’esatta data di cessazione e che, pertanto, nulla dovevo per il secondo trimestre, essendo cessato a marzo il rapporto di lavoro.

Stamane ricevo una telefonata da una funzionaria di “INPS risponde”. Gentile e precisa, mi conferma che le mie comunicazioni erano regolari… ma che i contributi colf sono settimanali e i relativi obblighi contributivi si perfezionano di sabato. Caso vuole che l’ultima settimana di marzo 2017 si sua chiusa con il sabato 1° aprile!

Comprendo al volo. Chi si ricordava di controllare quando cadeva il sabato della settimana di conclusione del rapporto di lavoro?

Ho torto. Scivolo sul sabatario, che coincide con un perfetto pesce d’aprile!

Uno smacco per chi, come me, ha diretto per molti anni l’area Entrate contributive dell’INPS piemontese.

Tant’è. Vale la frase finale di A qualcuno piace caldo, quando il miliardario innamorato della finta Daphne risponde a Jack Lemmon, che confessa d’essere maschio: Nessuno è perfetto.

Ammetto il torto.

Pago.

Non sia mai che alla mia domestica manchi una settimana di contributi per un 1° di aprile ballerino.

Viva la regolarità contributiva. E, proprio per questo, abbasso la rottamazione delle cartelle e i tanti, troppi condoni più o meno mascherati che continuano a esser riproposti.

Chi vuol essere in regola paga sino all’ultimo centesimo, incluse le sanzioni anche in casi, come quello che ho descritto, nei quali la buona fede è palese. Giusto così. Non discuto, non mi lamento.

Ma intanto quanti intenzionalmente non pagano trovano scappatoie e vie d’uscita che li lasciano indenni. Ancor più quelli che nascondono del tutto le loro attività e guadagni.

Contro questo scandalo, che colpisce i redditi di chi li denuncia alla luce del sole e che toglie risorse ai servizi pubblici, c’è ragione di protestare.

Viva l’Italia, senza plauso a chi la sgoverna appoggiandosi al consenso di cittadini che preferiscono dimostrarsi più furbi che onesti.

Declinazioni d’amore: pubblicazione

Ad Aprile vinsi al Premio Letterario Internazionale Città di Cattolica – Pegasus Literary Awards XIV Edizione nella sezione per le sillogi inedite. Oltre alla targa, il premio per il primo classificato consisteva nella pubblicazione dell’opera presso la Casa Editrice Pegasus, con oneri di edizione, diffusione e commercializzazione a carico dell’editore.

Nel contratto che firmai successivamente, la pubblicazione venne prevista entro l’anno.

Ed ecco, finalmente, il libriccino tra le mie mani.

Una nuova emozione. Le vibrazioni della mia anima stampate su carta. Disponibili con ordine nelle librerie e negli store on line.

Bella sensazione.

Cosa recita la raccolta? Riporto la descrizione della mia presentazione, che precede i versi, illustrandone genesi e ispirazione.

Spero che quest’opera possa trasmettere sentimento a chi vorrà leggerla.

Federico Faggin

Irriducibile: La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura

Federico Faggin è l’inventore del microprocessore. Scienziato di fama mondiale, imprenditore, lasciato l’impegno diretto nell’industria tecnologica iniziò a interrogarsi sulla natura della conoscenza.

Figlio di un filosofo, le sue riflessioni partirono da una profonda insoddisfazione per lo stadio d’approdo del pensiero scientifico e, come spiega nel libro qui recensito (e nel precedente (intitolato Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza) perché le grandi soddisfazioni raggiunte nella sua carriera, cui aveva finalizzato l’intera vita, non lo rendevano felice.

Da allora, nell’incendio dell’anima di uno stato eccezionale in una notte del 1990, in Faggin sbocciarono uno stato spirituale di gioiosa pacificazione e la consapevolezza che la verità può essere indagata soltanto nell’identificazione tra l’osservatore e ciò che è osservato. Alla fine, risolse che il mondo è un’unità nella quale ogni essere senziente è parte e tutto.

Da lì si avvia l’excursus dello stato delle conoscenze scientifiche, la critica all’insufficienza del riduzionismo meccanicistico che retrocede la realtà alla sua descrizione, scambiando il significato per i simboli che tentano di rappresentarlo.

Attraverso una ricognizione dei criteri interpretativi della fisica classica, raffrontati alle nuove frontiere della meccanica quantistica, l’autore constata che ancora non si è giunti a una teoria generale in grado di unificare quella quantistica dei campi e la relatività generale.

Ne deriva che se il sapere scientifico è incapace di afferrare la natura della vita, che è variabile e irriducibile a leggi di prevedibilità assoluta, la verità va ricercata partendo da un diverso approccio.

Per Faggin “La vera intelligenza è intuizione, immaginazione, creatività, ingegno e inventiva. È lungimiranza, visione e saggezza. È empatia, compassione, etica e amore. È integrazione di mente, di cuore e di azioni coraggiose.”

Le macchine possono sviluppare equazioni e algoritmi a velocità e di complessità impensate, ma non potranno mai possedere la coscienza, quindi mai saranno vive.

Coscienza e libero arbitrio sono i caratteri che connotano la vita, che sola può generare altra vita.

Ed ecco che la seconda parte del libro ci proietta in quella dimensione spirituale che fonda l’esistenza del mondo e il suo divenire come atto della conoscenza di sé di Uno, così definendo l’universo in sé, nel quale tutti gli esseri senzienti concorrono all’evoluzione, anche costruendo processi di scambio e comunicazione tramite l’informazione “viva”.

La definizione dei concetti e la profondità di analisi sono spesso spiazzanti: tutto pare molto semplice ma infinitamente complesso.

A me la lettura ha restituito molte più domande che risposte. Ma, in fondo, filosofia e scienza, nell’unica certezza dell’imperfezione, non hanno proprio il fine educativo di muovere al dubbio, a interrogarsi per cercare la verità, sapendo che potrà essere avvicinata (e mai afferrata compiutamente) soltanto per approssimazioni successive?

Il protagonista di un mio romanzo giovanile trovava due domande per ogni risposta. È nella mia indole l’irrequietezza della ricerca continua.

Il saggio di Federico Faggin ha il merito, oltre al pregio della chiarezza divulgativa e della ricchezza delle riflessioni, di comunicare sensibilità e serenità. Già questa è una ragione per leggerlo.

Jacques Attali – Cibo

Mangiare bene per vivere bene

Il saggio pare, all’inizio, soltanto una dotta e rigorosa narrazione della storia dell’alimentazione nello sviluppo delle civiltà, dall’antichità ai tempi moderni.

Quando si arriva alla contemporaneità, il livello di coinvolgimento sale: nel lettore, che scopre – attraverso il rimbalzo tra dati e osservazioni di taglio sociologico – una realtà che travolge la presunta neutralità dei comportamenti individuali e rivela la fredda e lucida passione dell’autore, impegnato a stimolare consapevolezza e azione per arrestare la deriva verso la distruzione delle condizioni stesse di sopravvivenza dell’umanità.

Jacques Attali è una delle grandi menti della cultura francese. Economista, scienziato, suggeritore di politiche con Mitterand, protagonista di iniziative e studi di rango europeo. Grande divulgatore che, nella sua sterminata ed eclettica erudizione, spaziò, nella saggistica, dalla storia dei rapporti tra i sessi alla demografia, alle problematiche dello sviluppo, ma non disdegnò il romanzo e le biografie.  

Capace di uno stile scarno e diretto, sa colpire con frasi dense di significato.

Verso la conclusione del saggio che commento, illustra con magnifica efficacia cosa, per lui, dovrebbe significare mangiare: Se vogliamo che l’umanità sopravviva e che tutti possano vivere appieno una vita sana e veramente umana dobbiamo cambiare il modo in cui il cibo viene prodotto e distribuito. Dobbiamo dedicare molto più tempo al cibo, a prepararlo, servirlo e consumarlo, a creare relazioni sociali durante i pasti e, infine, sviluppare consapevolezza del fatto che attorno alla tavola si fa e si disfa il potere.

Perfetta sintesi. L’attuale modo di produzione alimentare contribuisce per quasi un terzo all’impronta di carbone che sta distruggendo il pianeta. Gli attuali comportamenti alimentari lasciano centinaia di milioni di persone alla fame, diffondono patologie collegate al consumo di cibi malsani (obesità) o alla malnutrizione (anoressia). La perdita del valore sociale della preparazione e del godimento conviviale del cibo condanna le persone alla solitudine e alla sudditanza vero il consumismo dissipatorio.

Mi portò alla lettura di questo saggio la convinzione che la sfida dell’emergenza ambientale sia fondamentale per tutti noi e che potrà essere vinta soltanto affiancando il cambiamento di scelte individuali a radicali trasformazioni dei modelli di produzione, distribuzione, sviluppo. Sapevo che il settore alimentare ne è parte assai rilevante.

Il saggio offre ampia documentazione per confermare l’esigenza di scelte non più rimandabili.

Ma fa molto di più.

L’inizio quasi piatto cresce verso un finale pirotecnico, vincendo ogni indifferenza e scendendo fino al nucleo della coscienza del lettore.

I dati valgono non all’astratta e mera illustrazione del quadro, diventando base per unire economia e cultura. Il cibo non va ridotto a mezzo di sostentamento, ma riscoperto nel suo valore di momento di scambio, di crescita, di incontro, a nutrire corpo, intelletto e anima.

L’umanità, per salvare sé stessa e non assecondare la catastrofe incombente dell’autodistruzione, deve recuperare il rapporto autentico con la natura e le specie che la rendono ricca e varia. Perché mangiare è una necessità, un piacere, il momento fondamentale della crescita per la mente e il fisico, per costruire lo spirito comunitario.

Globalizzazione: pericoli/opportunità

Dinanzi alla miseria dell’offerta politica che ha condotto ai recenti esiti elettorali, ci si interroga su riferimenti ideali e visione di futuro capaci di riaccendere speranze, mobilitare le menti e le passioni.

Nel vasto mosaico di opinioni e proposte, il tema della globalizzazione vede schierarsi una folta schiera di avversatori della più diversa origine.

Alla globalizzazione vengono addebitati la distruzione delle economie locali, la dilagante dicotomia tra grandi ricchezze e crescita della povertà, l’impoverimento del ceto medio, la perdita di identità culturale dei popoli, il cambiamento climatico e via elencando.

Da ultimo, dopo la pandemia e con l’esplosione della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, la dipendenza da fornitori di energia (ma anche di fondamentali materie prime alimentari) lontani, egoisti e cinici, tale da innescare effetti moltiplicatori dell’inflazione e da far schizzare il costo delle bollette e del carrello della spesa.

Gli effetti sono tutti veri, evidenti e brucianti. Ma davvero la globalizzazione ne è causa? 

Lungo la storia millenaria della civiltà, raggiungere altri mondi, incontrando altre culture e traendone insegnamenti ed esperienze, è stato motore di progresso. Certo ne sono venute le nefandezze del colonialismo, la diffusione di virus prima sconosciuti ai popoli che ne caddero vittima, il susseguirsi di guerre per la conquista dell’egemonia, il controllo di territori e ricchezze. Tuttavia, alla fine, a prevalere, ad affermarsi sul lungo periodo, sono state la crescita di conoscenza e abilità, la disponibilità di materie prime che, intrecciandosi con grande duttilità, hanno portato a nuove scoperte e un complessivo innalzamento del potenziale scientifico ed economico del mondo. In modo diseguale, ma a somma innegabilmente positiva.

L’enciclopedia Treccani così definisce la globalizzazione: Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.

La globalizzazione altro non è che la fase suprema della disponibilità dello scambio esteso a tutto il pianeta. Fermarla significa frenare (o, addirittura, fare arretrare) il progresso.

Se ne deve dedurre che il diavolo si traveste da progresso?

O piuttosto il problema è il segno della globalizzazione?

Un processo naturale di feconda contaminazione tra culture è stato piegato da una logica dominante alla supremazia del mercantilismo esasperato che tutto divora, nella famelica smania di consumo che ha conquistato menti e comportamenti sull’intero pianeta. L’imperativo era produrre quantità maggiori a costi decrescenti, vendere senza tregua rendendo obsolescenti i prodotti nel minor tempo possibile per sostituirli con altri dall’analoga funzionalità ma resi appetibili da innovazioni minimali. Una competizione sfrenata, nella quale mastodontici player del mercato dettano le regole, con livelli di concentrazione del potere e dei profitti via via più accentuati, mentre i consumatori subiscono il fascino del mantra dell’avere: se non hai questo o quel prodotto non sei nessuno.

Risultati: masse accecate dalla rincorsa al superfluo, affermazione del consumo usa e getta, creazione di agglomerati di potere sovranazionale, progressiva e rapida distruzione dell’equilibrio ambientale.

Lo strumento che ha governato questo perverso processo è la finanziarizzazione dell’economia. Per accelerare la concentrazione di ricchezza, creando proventi per immensi investimenti che rafforzano il potere di chi ne dispone, il denaro genera denaro, in modo sempre più sganciato e indipendente dalla base materiale dell’economia. In parallelo, veicolando una distribuzione internazionale del lavoro che specializza i ruoli produttivi, privilegiando quelli a più elevata intensità tecnologica e i servizi rispetto alle produzioni primarie e secondarie, il valore del lavoro manuale viene sminuito e si determinano le condizioni per pagarlo sempre meno.

Qui stanno i nodi che provocano gli effetti malevoli imputati alla globalizzazione.

Per combatterli ci sono due strade, diverse e alternative tra loro.

La prima è tentare di tornare indietro. Opporsi alla globalizzazione rinchiudendosi nel provincialismo, puntare sull’autosufficienza, recuperando produzioni che sono state decentrate all’estero, sostenendo i prodotti locali e cercando di farseli bastare. In parallelo alla limitazione dell’immigrazione, al rifiuto di accogliere culture nate oltre i confini, al nostalgico richiamo di bei tempi passati.

Questo egoismo miope vive nell’ottica della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre e, in particolare, nella sua versione più coerente, della forza preminente nella formazione di destra-centro che ispira e innerva il nuovo governo italiano. Tipico aver varato il Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Nella concezione della premier e del suo ministro, sovranità alimentare significa espandere le quantità di produzione nazionale fino a renderla sufficiente alla domanda nazionale del settore. Rifiutando gli accordi della Politica Agricola Comune (e sottacendo che anche l’Italia ne riceve ingenti sussidi per il mondo contadino nazionale), retrocedendo le politiche di incentivo alle produzioni ecosostenibili e a quelle per il miglioramento dell’igiene alimentare, della salubrità individuale e collettiva. Una logica corporativa ispirata da una visione autarchica. Non per caso, in linea con l’ideologia che accompagnò la militanza dei suoi leader.

Non diversamente saranno affrontate le politiche ambientali, quelle del lavoro, della sanità, dell’istruzione, della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologica, della cultura. Senza dimenticare il versante dei diritti civili e i meccanismi di funzionamento della democrazia rappresentativa.

La via alternativa è imporre un cambiamento di direzione al processo di globalizzazione. La nuova attenzione che si impone alla ridefinizione delle filiere delle produzioni, dall’energia, all’agricoltura, all’industria, con il recupero di capacità produttiva in ambiti comunitari se non nazionali, permette di restituire enfasi al valore dell’economia materiale, facendo retrocedere la rapacità del capitalismo finanziario. Grandi investimenti sono necessari. Gli investimenti pubblici devono tornare a essere leve di sviluppo restituendo un compito (e un potere) di indirizzo al mercato, dando priorità agli interessi collettivi su quelli privati e individuali. Energia, innovazione scientifica e tecnologica, sanità, infrastrutture, istruzione e formazione, risanamento idrogeologico, ma anche rifacimento del patrimonio edilizio, risanamento urbanistico, guida a nuovi sistemi di mobilità sono terreni che richiedono finanziamenti pubblici, quali promotori e attrattori di investimenti privati dentro obiettivi socialmente definiti e controllati.

In tale riallocazione di risorse e obiettivi c’è lo spazio per ridare dignità al lavoro, a partire dal lavoro manuale, che deve crescere in qualità avvalendosi delle potenzialità offerte dalla scienza.

L’esempio, tra i tanti, ma rilevante per la sua centralità, è proprio quello delle politiche alimentari. L’obiettivo di offrire a tutti cibo sano e sostenibile non potrà essere raggiunto estendendo produzioni e superfici coltivate a quanti oggi operano nel settore, ma sostenendo l’agricoltura di qualità, quella che unisce il benessere del consumatore alla salvaguardia dell’ambiente.

Il cibo, come da tempo ci insegna Slow Food, deve essere buono, pulito e giusto.

Buono: ingredienti grezzi prodotti nel rispetto della natura, dei produttori, della salute dei consumatori

Pulito: prodotto con metodi naturali che garantiscono varietà, biodiversità, a basso impatto ambientale nell’intero ciclo di vita, in ambiente sano.

Giusto: non contraffatto, non adulterato, non sofisticato. Ottenuto con un’equa distribuzione del valore lungo tutta la filiera di produzione

Il cibo sano e sostenibile privilegia la qualità come valore, anche pagandolo più del prodotto industriale di massa. Si combatte la fame nel mondo potenziando le colture (e le culture) locali e non omologando metodi di produzione finalizzati a moltiplicare quantità a prezzi più bassi, foriere di diete malsane e di spreco.

Le immense sfide che attendono l’umanità non hanno dimensione puntuale. Il cambiamento climatico non può essere fermato dentro un determinato confine, la salute collettiva non si tutela chiudendo le frontiere.

Sono sfide da affrontare con l’intelligenza e la passione dell’universalismo. Si vinceranno soltanto mettendo a frutto il meglio che le tante culture sanno esprimere, favorendone l’integrazione. Coniugando politiche dall’orizzonte lungo e una progressiva trasformazione dei comportamenti. Perché non esistono soluzioni locali, ma la soluzione non arriverà senza la somma di interventi puntuali dentro un quadro di interventi sistemici complesso e saggiamente coordinato.

La globalizzazione non è il nemico della giustizia sociale.

Essere per l’apertura verso il mondo è battersi per il progresso in ottica solidale.

Essere per la chiusura è il rifiuto del futuro e l’abdicazione al governo del cambiamento.

Questa antinomia, forse, in questo nostro Ventunesimo Secolo, è la versione della contrapposizione ideale tra progressismo (orientato a una rivoluzione gentile) e conservatorismo (con le sue derive reazionarie).

Nero come la moda – Temi, personaggi, morale

La Biblioteca Civica di Bagnasco mi ha invitato a presentare il mio ultimo romanzo pubblicato nella serata del 7 ottobre 2022.

Nero come la moda”, il mio giallo di recente pubblicazione, è stato presentato insieme a “Ce la farò” di Gabriella Mosso.

Affiancare un giallo a un romanzo su un’esperienza di malattia brillantemente affrontata e superata non era impresa facile. Ci è riuscito Gianluca Giraudo, capace di tessere una tela che spaziava su temi tanto differenti attraverso un’intelligente lettura critica e l’insistenza sul senso profondo delle diverse storie narrate.

La serata è corsa via veloce e ha tenuto ben viva l’attenzione del pubblico.

Verso la fine coglievo la stanchezza su molti dei visi dei presenti e, ciò nonostante, altrettanto leggevo l’interesse ad ascoltare gli stimoli che i libri proponevano.

Gianluca si è rivelato un conduttore che sa scendere nel vivo dei motivi che ci hanno spinto a scrivere. Merito di una coscienza di lettore curioso e vivace. A lui sono grato perché, da “non lettore di gialli” qual è, ha saputo cogliere nel mio scritto spunti che lo sottraggono al confinamento nella letteratura di genere.

Da quella serata estraggo alcune delle mie risposte nate dalla riflessione a interrogarmi sui contenuti che hanno ispirato il romanzo.

Sono flash video (purtroppo di non eccelsa qualità) che rendono senso e stile di “Nero come la moda”, aiutandomi a scavare nella mia passione letteraria.

L’ESERGO

La prima domanda investe la ragione della dedica che apre il romanzo: “A chi non scambia la velocità dell’informazione per la verità. A chi ancora sceglie di riflettere.

Come spiego, la dedica è venuta dopo aver completato il romanzo. Tuttavia, interpreta pienamente le inquietudini, di indole sociale, che mi hanno pungolato, spingendomi a porre al centro della vicenda la forza della manipolazione collettiva delle opinioni e dei comportamenti via web.

NOMI – CRIMINALITA’ – IL MALE

L’originalità dei nomi che scelgo per i miei protagonisti risponde al desiderio di andare oltre ogni banalità. Anche perché spero che i miei attori rimangano nella memoria e nella fantasia dei lettori.

La più pericolosa criminalità moderna non si nutre di classici delitti contro la persona, non mostra i tratti della violenza in forma fisica. Essa, puntando a grandi profitti, manipola e inquina l’economia e assume una dimensione sociale: corrompe le menti, diffonde informazioni devianti, irreggimenta i comportamenti e ne è corollario un viluppo di ricatti, corruzione, brutalità, fino all’assassinio. Questa è la criminalità, dalle dimensioni proteiformi, che cerco di descrivere – attraverso la metafora della moda – nel mio romanzo.

Il male esercita un fascino perverso. Esserne consapevoli è lo stesso che comprendere come nell’animo umano convivano sentimenti e orientamenti diversi. Nessuno è completamente buono, né malvagio. Sono le esperienze e talora le circostanze a renderlo un criminale, fino a una sorta di incarnazione del male, come il genio che guida l’organizzazione contro cui lotta il vicequestore Gabuzzi.

SARA SIRARELLA

Un’imprenditrice napoletana: bella, ambiziosa, capace di agire al confine della malavita, vagamente infatuata dal vicequestore Gabuzzi, disinvolta e pronta a unire piacere dissoluto e vantaggio per i propri piani di scalata al potere: tutto questo, in una personalità affascinante e a suo modo perversa, è Sara Sirarella.

La figura che più mi ha intrigato nella costruzione della trama.

COSA VERRA’ NELLE PROSSIME PAGINE DI GIORGIO NARRATORE

Infine, l’ultima domanda riguardava gli sviluppi della mia passione letteraria.

Ho riassunto rapidamente quel che è già pronto e ciò a cui sto lavorando.