Coltivare R.O.S.E.

Questo è il mio primo racconto ispirato dalla passione sociale con cui guardo alle dinamiche politiche e culturali.

Mi svegliai una mattina attraversato da una strana inquietudine. Sogni e lettura delle cronache dei giorni precedenti si intrecciavano confusamente. Dopo un agitato dormiveglia rimasi a letto a rimuginare i pensieri. Mi vennero considerazioni e un’ispirazione che darà il titolo al racconto.

Vi offro questo inedito per comunicare, in forma letteraria, “pensieri e parole” di chi vorrebbe volgere in positivo la risposta alla crisi di valori, al tramonto degli ideali del novecento, allo sconcerto per la velocità e la profondità dei mutamenti che ci circondano.

 

Coltivare R.O.S.E.

Arcadio Vinetti richiuse la sua Ypsilon Platinum stando attento a non sbattere la portiera. L’aveva ritirata dalla filiale di vendita poco più di una settimana prima e voleva conservarne l’integrità e la purezza. Impresa difficile nel vortice della vita cittadina, ma, per sua fortuna, si era nelle settimane centrali di agosto e il traffico metropolitano di Torino stava ai minimi termini.
Anche la zona blu era sospesa, così da non obbligarlo a cercare un parchimetro che avrebbe inghiottito le monetine con le quali preferiva pagare il caffè del mattino.
Abbassò gli occhi verso l’orologio al polso: le sette di sera.
Pochi passanti, bar chiusi, un sottile velo d’afa che accompagnava il calar del sole.
Attraversò a passo lesto, schivando una Smart blu oltremare che sfrecciava sul corso Moncalieri ben oltre i limiti di velocità per saltare l’incrocio su corso Fiume prima che il giallo del semaforo cambiasse in rosso.
“Imbecille!” pensò. Cosa gli premeva tanto? Un appuntamento galante o il rendez vous per l’aperitivo con gli amici? Probabilmente a renderlo aggressivo era la permanenza in città quando la maggioranza dei torinesi stava in ferie.
Arcadio, invece, preferiva rimanere al lavoro ad agosto. Era l’occasione per godere delle bellezze del centro senza la pressione della folla e la frenesia della competizione che spingeva tutti a correre, a fuggire gli sguardi, a rimanere sempre connessi.
Per ammirare il fascino discreto di piazza Carignano, gioiellino incastonato sulla via Accademia delle Scienze poco dopo l’incanto di fama mondiale del Museo Egizio.
Perfino il profilo austero e quasi tronfio della grande Piazza San Carlo cambiava, assumendo un’aura risorgimentale nei colori delicati delle pareti laterali, lambiti dai raggi obliqui del tramonto a circondare poche decine di turisti intorno al bronzeo monumento equestre caro alla cultura sabauda.
Accantonò quei pensieri: la sua passeggiata era finita e doveva dedicarsi all’intervista.
Strana ora gli aveva fissato l’anziano professore.
Si era documentato prima di chiedergli l’incontro. Ogni sera verso le otto il professore scendeva, superava il ponte Umberto I e percorreva corso Cairoli e poi il lungo Po Diaz per raggiungere piazza Vittorio Veneto, dove si concedeva un bitter a uno dei tavolini del bar sull’angolo della via Po, salutava amici e conoscenti e andava a cena, sul tardi, in un ristorantino poco lontano, dove spesso incontrava altri che, come lui, erano stati docenti alle Facoltà Umanistiche dell’Università di Torino.
Poiché certo quell’abitudine non sarebbe stata sacrificata per un giovane cronista on line, il colloquio non poteva durare più di quaranta minuti.
Si affrettò, controllando i nomi sui campanelli.
Il professor Carlo Coreglio abitava al piano alto.
Al telefono glielo aveva chiarito, non senza precisare, in un moto di vezzo inconsapevole, che aveva scelto quell’alloggio perché gli offriva ogni giorno la vista del Po, con l’effetto “sempre vivace” delle sue acque screziate dalla luce prima dell’imbrunire.
Arcadio guardò in alto. Dalla strada non si riusciva a vedere sui balconi alla sommità dell’edificio, ma immaginò il professore con i gomiti poggiati sulla ringhiera ad ammirare il panorama, approfittando della giornata calda e serena.
«Vinetti?» lo sorprese la voce nel citofono, appena un istante dopo il trillo grave del campanello.
«Sono io, professore.»
«Terzo piano, la aspetto» replicò l’ospite nell’accento metallico del comunicatore.
Arcadio prese l’ascensore.
Il professore aveva la porta socchiusa e quando il giovane uscì sul pianerottolo la spalancò, ricevendolo con un sorriso cortese e misurato.
«Venga.»
Il giornalista seguì il professore attraverso uno stretto corridoio e poi venne fatto accomodare su una poltroncina imbottita in uno studio affacciato verso la strada.
Oltre la piccola finestra si stagliavano la parte nord del parco del Valentino e, in lontananza, le costruzioni massicce dell’ultimo tratto di corso Massimo D’Azeglio.
«Mi ha stupito la sua richiesta» esordì il professore.
Arcadio lo fissò. Nonostante la sua giovane età aveva imparato, con anni di esperienza alla ricerca di notizie e opinioni, a delineare il carattere delle persone che incontrava.
Carlo Coreglio vantava un curriculum accademico molto ricco. Aveva insegnato storia delle dottrine politiche all’Università di Torino per più di trentacinque anni. Aveva sfiorato, appena quarantenne, la presidenza delle Facoltà Umanistiche e, dopo aver perso la sfida per l’incarico, si era dedicato totalmente allo studio e all’insegnamento. Aveva pubblicato molti saggi, scritto per molte riviste. Dopo il pensionamento aveva tenuto seminari, era stato oratore in innumerevoli convegni, aveva collaborato con la Fondazione Agnelli e con alcune società di ricerca storica.
Non si era mai esposto politicamente, resistendo a ogni sollecitazione.
Studioso a tutto tondo, esprimeva pareri e proponeva analisi che consegnavano più domande di quelle cui aveva provato a rispondere.
Perché, sosteneva, compito di un docente non è fornire ricette, ma insegnare a cucinare.
Il giovane cercò di inquadrarlo.
Un omino magro, di altezza media, con una peluria grigia, morbida e scarruffata, intorno alla bocca e sul mento, in una pallida imitazione di barba e baffi alla Ryan Gosling invecchiato.
Si era seduto a sua volta su una poltroncina foderata in un tessuto a larghe falde verticali, ocra e verde olivina.
Sembrava stanco, ma la sua voce era ferma quando chiese: «Crede che le mie idee interessino a qualcuno?»
L’improvviso rovesciamento di ruolo, con l’intervistato a porre domande, spiazzò Arcadio.
«Ho letto la sua affermazione sulla pagina cittadina di Repubblica» rispose. «Da parte sua è coraggioso liquidare “il pensiero politico esaurito con la fine del millennio”. Di lei si parlò come di uno strenuo difensore della continuità dell’opposizione tra destra e sinistra.»
Coreglio lo catturò con i suoi occhi acquosi ma ancora pungenti. Aspettava un chiarimento che non era ancora giunto.
Il giornalista lo accontentò, muovendosi nervosamente.
«Sono certo che lei sia in grado di dirci cosa c’è al posto di quel che è finito. Questo può interessare i lettori.»
Il professore sorrise.
«In un giornale on line?»
Condì la nuova domanda con ironia, a manifestare tutte le sue perplessità.
«Anche i lettori della stampa elettronica sono curiosi.» Arcadio reagì con fastidio, il fossato generazionale si era spalancato tra di loro. Seppe replicare con altrettanto sarcasmo. «Perfino intelligenti, guardi un po’.»
Coreglio deglutì, poi sorrise, divenendo più conciliante.
«Mi perdoni, Vinetti. Ho lasciato l’Università da diversi anni, perdendo l’occasione di frequentare i giovani. Non credo siano ignoranti, ma fatico a cogliere in loro interesse per l’approfondimento.»
Il giornalista ritrovò vigore. Una scarica di adrenalina gli attraversò le vene. Sentì di aver ripreso il controllo del confronto.
«Esser veloci e multitasking non significa non voler capire. Aver perso riferimenti e fiducia non è rinuncia al futuro.»
«Bene!»
Il vecchio si lasciò andare all’indietro contro lo schienale, come in un moto di sollievo.
«Forse» aggiunse con un tono apertamente amichevole «potrò esprimere quel che penso e sperare che qualcuno lo legga.»
Vinetti, con l’esperienza del mestiere, comprese che l’incontro prometteva esiti insperati. Poteva contare sull’alleanza tra il suo scopo di proporre un punto di vista non convenzionale e il desiderio del professore di far uscire dal cassetto qualche nuova teoria.
«Sono qui a intervistarla perché scommetto che lei sarà originale e incisivo. Il mio pezzo non cadrà nel vuoto!»
Coreglio assentì col capo, poi socchiuse le palpebre, come a raccogliere le idee.
Vinetti fece un lungo respiro, dilatando i polmoni. Estrasse di tasca un registratore e lo pose sul tavolino che lo separava dal professore.
«Cominciamo» annunciò, soffiando nel dispositivo.
«Torino, 18 agosto 2018, intervista al professor Carlo Coreglio.»
Il vecchio piegò le labbra, a confermare di essere pronto.
«Professore, lei ha recentemente sostenuto che le categorie di “destra” e “sinistra” non valgono più. Prima la pensava diversamente. Perché ha cambiato idea?»
L’intervistato mosse le spalle di scatto. Il taglio aggressivo del quesito, tipicamente giornalistico, lo disturbava.
Storse involontariamente il naso. Per fortuna non aveva di fronte una telecamera.
Scelse di non evitare l’equivoco.
«Fino alla fine del secolo scorso valeva la distinzione acutamente illustrata da Norberto Bobbio. Per semplificare, il filosofo affermava che, data per acquisita una comune fede democratica nella quale erano condivisi valori di fondo, la sinistra privilegiava l’eguaglianza alla libertà, mentre la destra praticava l’opzione opposta. Semplice, chiaro, efficace. Ma al cambiare del contesto storico, sociale, economico anche la cultura muta parametri. La cultura politica non fa eccezione.»
«La prego di non farci perdere nelle teorie dei grandi sistemi» lo interruppe il giornalista, che aveva l’esigenza di un linguaggio immediato per non allontanare i lettori. «Ci sono ancora una sinistra e una destra?»
Coreglio quasi sbuffò. Voleva strappargli una tesi scandalosa? Decise di assecondarlo.
«Oggettivamente non ci sono.»
«Ma molti continuano a definirsi appartenenti alla destra o alla sinistra» obiettò Vinetti.
«Da scienziato distinguo tra le aspirazioni e i comportamenti reali.»
Il giornalista gongolò. Il tono era netto, quello di uno “scienziato” che osava tralasciare le sfumature e brandiva la spada della polemica. Perfetto per un pezzo pepato.
«Allora quali etichette descrivono gli attuali schieramenti?»
«C’è molta confusione: nelle analisi, nelle proposte, nelle azioni.» Il professore ci prendeva gusto. Vinetti sapeva di poter giocare con la sua astinenza da protagonismo. Doveva solo evitare che venisse fuori la prosopopea dell’erudizione, materia giornalisticamente impresentabile.
«Mi chiede di definire la natura di quanti si contendono il consenso e il governo? Direi che siamo alle prese con forme diverse di conservatorismo. Chi vorrebbe rifarsi a classi sociali che sono state smembrate dalla rivoluzione digitale e chi vorrebbe ritornare a un mondo più lento e a comunità chiuse.»
Vinetti rilanciò.
«Molti reclamano di essere liberi dalle vecchie credenze e appartenenze e di fondare la loro linea su forme di democrazia partecipativa che seleziona per volere popolare le politiche da attuare.»
«Balle!»
Il professore sbottò. La provocazione aveva colto nel segno.
«C’è una ricerca del consenso costruita cavalcando il risentimento di quanti non si sentono rappresentati. Nel vuoto di progetti che restituiscano prospettive di miglioramento delle condizioni economiche e di sicurezza, vince chi alimenta la protesta. Non per fare, ma per cercare di addossare agli avversari le colpe di quel che non va. Un rimpiattino penoso.»
«Non è la forma attuale di destra contro sinistra?» lo stuzzicò Arcadio.
«Destra e sinistra sono estinte perché la società che le esprimeva non c’è più. Siamo in un magma indistinto. La società liquida crea correnti esistenziali frammentate e volubili, la cui rappresentanza politica è perennemente mobile.»
La luce che filtrava dalla finestra si stava attenuando, stendendo una penombra ambigua nella stanza.
Vinetti cercò di stringere l’intervistato a concetti meno sfumati.
«Ci sarà ben un’aspettativa più forte delle altre che determina la vittoria di una formazione politica in grado di portarla avanti. Almeno come programma, se non come realizzazione.»
Coreglio negò l’ipotesi, scuotendo lateralmente il capo.
«Oggi vince chi riesce a sommare frammenti di desideri diversi, a volte alternativi o incompatibili l’uno con l’altro. Tanto le stagioni politiche sono brevi e tutta si gioca su promesse più che su atti concreti.»
Mancava qualcosa, pensò il giornalista. Ricordò la lezione registrata che si era procurato dopo aver notato la citazione di Repubblica. Carlo Coreglio, pur nella freddezza del rigore scientifico con cui insegnava, colpiva perché anche le sue analisi più crude non precipitavano nel pessimismo. Per questo voleva intervistarlo, per trovare spunti positivi. Invecchiando, la sua vena si era ingrigita?
Tentò nuovamente di raddrizzare il colloquio.
«Professore, ci sta dicendo che non abbiamo speranze, che la dispersione delle figure sociali ci consegna un presente ingovernabile? Siamo condannati al declino?»
«Nient’affatto!» protestò il vecchio.
Così dicendo si alzò.
Quasi incurante del giovane, si diresse alla finestra e guardò in direzione del fiume. Scostò la tendina e, preso atto che le nubi avevano preceduto il tramonto e imbrunito il cielo, premette l’interruttore. Le lampade a soffitto illuminarono la stanza.
«Occorre accendere la luce quando il buio avanza!»
L’esclamazione plateale sembrò rimbalzare sulle pareti.
«Chi può farlo, secondo lei?»
Vinetti fremeva di eccitazione. Forse sarebbe riuscito a trascinare Coreglio nell’agone politico, a portarlo a schierarsi come mai aveva fatto in passato.
«Non saprei» lo deluse il professore. «Non vedo nessuno. Ma…» lasciò la frase sospesa.
Il giornalista assecondò l’effetto scenico, chiedendosi come avrebbe potuto riprodurlo in un testo scritto.
«Ci indichi questo interruttore!»
«La speranza per il mondo è trovare una via per riconciliare economia, ambiente e comunità nel segno della scienza.»
«Professore, sembra una formula generica e scontata!» La protesta di Arcadio era spontanea, si sentiva deluso sia in chiave professionale che personale.
Coreglio lo sorprese.
Stando in piedi, con la schiena rivolta al tavolino, sollevò entrambe le braccia e portò le mani all’altezza della bocca.
«L’Italia può contare sulla storia, sul paesaggio, sulla sua cucina, sull’ingegno e sulla fantasia. Puntare sulla cultura e sulla tradizione attraverso le nuove tecnologie potrebbe far rifiorire i nostri talenti.»
Vinetti spostò il registratore, per metterlo in direzione della voce del professore. Il vecchio si stava infervorando, ma ancora non gli offriva materiale da scoop. Tornò a pungolarlo.
«Belle parole. Ma sono auspici astratti.»
«Mai stato a Firenze?»
Coreglio strinse gli occhi, con lo sguardo malizioso di un bambino che prende in castagna un adulto.
Non attese la risposta e proseguì.
«La maestosa eleganza che racchiude è l’esempio di ciò che fu e dovrebbe rinverdire. Tante volte mi sono chiesto come uomini tanto litigiosi siano riusciti a costruire quella meraviglia di città. Forse proprio il loro carattere non consentì di farne il dominus dei loro tempi.»
Il giornalista continuò a premere l’intervistato, con tono sempre più insistente.
«Tutto qui? Nostalgia degli anni d’oro dei Medici?»
«Caro ragazzo, nessuna nostalgia.»
Il professore riprese posto sulla poltroncina, costringendo il giovane a riportare il dispositivo di registrazione nella posizione precedente.
«La risorsa nascosta del nostro Paese è il suo tessuto urbano. Il mondo scoppia gonfiando le megalopoli e cerca soluzioni per rendere umana la vita nelle città. Qui è possibile costruire la ricetta vincente: investire sulla vivibilità urbana, inventare servizi e prodotti che migliorano la vita dei cittadini delle nostre affascinanti città e venderli a tutto il mondo.»
Arcadio sobbalzò.
«Sta proponendo un programma di politica economica?»
«Chiamiamola un’intuizione» si schermì Coreglio.
Leggendo curiosità e stupore sul volto del giovane intervistatore, giocò la carta che aveva tenuto coperta.
«Ma il vero problema è come far emergere questi temi. Il cerchio della mia analisi sul declino dei movimenti politici del novecento si chiude: nessuno tra essi, nessun leader che agisca nella loro logica vorrà impegnarsi a proporre una visione coraggiosa di lungo periodo.»
Arcadio ripassò mentalmente le risposte che aveva snocciolato il suo interlocutore. Aveva la sensazione di essere guidato verso una linea di confine, allettato da un passaggio che ancora gli veniva celato. Doveva varcare quella soglia.
«Professore, non vorrà rifugiarsi nel pessimismo!»
Il vecchio sorrise e si mise più comodo. Era il momento, pensò. Perché lì voleva arrivare.
«Dovrà nascere un movimento che ancora non esiste. Si respira la sua necessità: vive nelle aspirazioni di molti che rifiutano la fine della storia e il rinculo della civiltà. Da studioso parlo di movimento e non di dottrina o di partito: un movimento è l’espressione informale di istanze collettive più o meno determinate. Raccoglierlo in una formazione politica significa tradurlo in rappresentanza e farla contendente del potere.»
«Se lei lo percepisce» obiettò Arcadio «qualcuno se ne starà facendo interprete…»
Il sorriso del professore assunse una piega insieme amara e insinuante.
«Quel che io so è che per nascere dovrà viaggiare sui binari della comunicazione politica dell’era digitale. Dovrà sapere evocare ed emozionare. I contenuti potranno anche venire dopo, perché la sua forza originaria starà nel sentimento collettivo. John Kennedy sedusse il suo elettorato con il richiamo della “nuova frontiera”. Oggi serve di più: lo slogan si deve tradurre in un nome. Capace di conquistare: non più ideologia ma idea di speranza.»
Sospirò profondamente. Si voltò, allungando la mano verso un cassetto sul mobile alla parete. Lo aprì e ne trasse un foglietto ripiegato.
Un’ispirazione rapì Arcadio. Con gesto fulmineo puntò il telefono cellulare verso il professore e scattò un’istantanea. Il momento nel quale il vecchio professore guardava sul foglietto, stendendolo davanti alle iridi frementi.
«Vuole rivelarmi l’idea che ha in mente?»
Coreglio lo fissò. La sua mente vagò per un attimo nel mare infinito delle filosofie che aveva studiato, poi si concentrò sulla suggestione che l’aveva travolto, sorgendo dal profondo della sua natura, in un lampo improvviso tra cervello e cuore.
«Un mio giovane collega, col quale condivisi alcune delle riflessioni che le propongo, esperto di semiotica, mi disse che un’idea non trova ascolto se non si traduce in una sigla, che dev’essere affascinante e carica di significati. La mia idea è che il programma di rilancio dell’Italia sia un nuovo Rinascimento…»
«Ancora Firenze!» lo interruppe il giornalista «Romantico ma antico…»
«Infatti», confermò Coreglio «ho pensato a un simbolo diverso per promuoverlo. Al movimento che potrà venire suggerisco di battezzarsi ROSE.»
Arcadio corrugò la fronte, deluso.
«Il nome di un fiore. Demodé.» La girò sullo scherzo. «Perché non giglio?»
«Non capisci!» Il tono era di rimprovero, lo stesso che il professore aveva usato per i suoi studenti che confondevano i concetti. «Tutte lettere maiuscole e puntate. Un acronimo!»
«R.O.S.E.» accettò il giovane «Le iniziali di quali parole?»
Il professore allargò ancor più il suo foglietto.
«Parole che illustrano i riferimenti del progetto: Rinascimento Orizzonte Sviluppo Europa.» Con evidente entusiasmo proseguì d’un fiato, mentre il suo dito scorreva sotto le parole schematizzate sull’appunto che aveva scritto come promemoria. «Quello potrebbe essere il nome del movimento, ma le sue iniziali evocano anche lo spirito e le direttrici d’azione del programma. Lo spirito si riassume in Ragione Ottimismo Sentimento Empatia. I punti d’azione sociale sono Rete Organizzazione Solidarietà Equità.»
Ripiegò il foglietto e si abbandonò sulla poltroncina. Era scesa la sera, nonostante l’ora avanzata non sembrava ricordarsi della sua passeggiata quotidiana al di là del fiume. Aveva finalmente dato voce all’idea cha da giorni gli ronzava in testa, come una reazione civile alla baraonda dell’imbarbarimento della dialettica sociale e politica.
Arcadio annotò un appunto.
Il professore lo scrutò, aspettando che gli dicesse qualcosa.
Poi, non sopportando oltre il silenzio, liberò la domanda: «Pubblicherà l’intervista? La ritiene interessante?»
Il giovane giornalista piegò il capo, increspando le labbra in un sorriso a mezza bocca.
«Lo farò. Lei dice cose diverse da quelle che siamo soliti sentire e che rimbalzano sui media. Non so se lasceranno il segno o saranno considerate bizzarrie.»
«Le fantasie di un vecchio professore fermo a studiare nel suo eremo» osservò Coreglio.
Arcadio aveva un’ultima curiosità.
«Mi dica, chi vedrebbe a guidare questo movimento che ipotizza?»
«Un outsider!» rispose secco il professore.
Arcadio non lasciò la presa.
«Non se la cavi con un’ovvietà! Mi dia un profilo…»
Coreglio non si sottrasse. Schioccò le dita e si pronunciò.
«Nessuno che sia stato prima in politica. Almeno, non con ruoli rilevanti. Magari un direttore di museo. Un mestiere per il quale ci vuole buona cultura, gusto della bellezza, competenze gestionali, doti relazionali.»
«Molto preciso!» Il giornalista azzardò l’affondo. «Ha in mente un nome?»
«Non conosco direttori di museo» chiarì Coreglio. «Mi ha chiesto un profilo, le ho indicato quello più coerente con la mia utopia.»
«Grazie, professore.»
Vinetti intascò il registratore, si levò in piedi e gli porse la mano.
A sua volta, il vecchio alzò la sua destra per stringere quella che gli veniva offerta.
«Mi andava di parlare» confessò. «Se rimarrò inascoltato non ne soffrirò. In una lunga vita di studi ho imparato, ho sbagliato, ho dato e avuto. Va bene così. Non cerco i riflettori della ribalta.»
Arcadio lo guardò, vestendo quasi d’affetto la stima che era cresciuta durante il colloquio.
«Professore, non garantisco che le sue tesi faranno scalpore, ma posso affermare che non sono banali. Cercherò di renderle al meglio.»
«Sei un bravo ragazzo!»
Arcadio aveva in mente il titolo del suo servizio.
“Coltivare R.O.S.E.”
Il vecchio meritava quel guizzo.
Quando tornò all’auto, Arcadio guardò in alto.
Il professor Coreglio si era sporto dal balcone, poteva intravederne la testa curvata verso la strada. Come se stesse cercandolo con l’attenzione che un genitore (o un nonno) riserva al figlio (o al nipote).
Arcadio accennò un saluto con la mano. Non ricevette risposta, forse il vecchio non riusciva a vederlo.
Scivolò al volante della Ypsilon con un empito di tenerezza a suggellare l’incontro.

 

Un Nuovo Rinascimento per l’Italia

Nella dimensione digitale che ormai pervade ogni rivolo delle nostre esistenze, tanto che l’identità digitale individuale è ormai una estensione dell’identità materiale e fisica delle persone, è facile che la velocità faccia premio sull’intelligenza del divenire storico.
In una società complessa la fatica di comprendere per decidere spinge al rifugio nel semplicismo millantato per chiarificazione, nella banalizzazione che sostituisce l’approfondimento. Così la politica agisce come i capitalisti d’assalto, per i quali la scadenza dell’agire non va oltre il risultato della prossima trimestrale.
Accade di conseguenza che il presente divori il futuro nutrendosi delle nostalgie di un passato ricordato migliore di quel che davvero era stato.
Ma io non mi voglio arrendere.
Mi ostino a interrogarmi e a pensare che sia possibile costruire una visione dell’avvenire per la quale valga la pena impegnarsi, un orizzonte di progresso, la ricomposizione di uno spirito comunitario ed inclusivo, nel quale economia ed etica rispondano all’unisono nel loro cammino.
Per questo lancio un’idea. Un progetto di politica economica per restituire al nostro Paese un ruolo di leader nel mondo, per far tornare l’ago della storia verso i valori che l’Europa costruì negli ultimi secoli, superando due guerre devastanti e scacciando le ideologie totalitarie ed antidemocratiche. Nel segno della cultura, dell’equità, della bellezza.
“Stay hungry, stay foolish”[diceva Steve Jobs], che da noi deve tradursi nella pazza idea di fare della Bella Italia il talamo che fa sposi la scienza e la poesia, per rigenerare il “prodotto Italia” come insieme di storia, ambiente, innovazione. Un terreno fertile nel quale la cultura umanista riaccende la creatività geniale che crea valore in una dimensione che non sacrifica la bellezza al mercato, che alla crescita dei volumi di vendita preferisce la realizzazione della vita buona.
Un modello locale e universale, italiano ed esportabile. Un modello che fa prevalere l’essere sull’avere, che costruisce il futuro e non dilapida il presente.
Pensiamo a Renzo Piano, a Petrini, a Cuccinelli, a Farinetti, a Sorrentino, a Bolle, alla Ferrero ed alla Luxottica (ma ce ne sono tanti altri ). Prendiamo il design industriale, la Ferrari, il laniero d’eccellenza, le colline toscane, il wellness altoatesino, le terme sorgive, il nostro Mediterraneo, i monumenti, i palazzi, la pittura, la musica della nostra tradizione (e tanti altri giacimenti oggi considerati laterali o a sé stanti). Facciamone sistema, proiettiamolo nel ventunesimo secolo. Siamo l’unico Paese che concentra tutto questo in così poco spazio, in un clima e una orografia ancora amichevoli.
Servirà una politica (“alta”) per far confluire queste doti, questi atout, in un nuovo Rinascimento.
Sotto quel titolo dobbiamo immaginare, progettare e attuare la nostra nuova politica industriale. Con tutta l’ambizione che ne deriva, di fare dell’Italia il Paese della vita buona, e renderlo un modello esportabile, che rilancia e alimenta la crescita, vendendo le idee, i servizi ed i prodotti che lo rendono praticabile.
Utopia, sogno? Di sogni sono fatte le sfide più ambiziose e straordinarie, a fondare successi che sbalordiscono le menti grigie ed i conservatori.
Ci sono percorsi praticabili per realizzare il Nuovo Rinascimento.
Tutti gli altri articoli di questa sezione indicheranno spunti e progetti, le (poche per ora) realizzazioni già coerenti con questa ambizione.

Il Nuovo Rinascimento

Una recente rilevazione internazionale ha posto l’Italia al primo posto per la salute dei suoi abitanti (Bloomberg Global Health Index 2017). Tutte le classifiche mondiali sono discutibili e vi sono fonti che portano a un diverso risultato. Ma questa buona constatazione merita di essere considerata per comprenderne i fondamenti e riflettere sul loro significato.
Conta la dieta mediterranea, anche se una recente ricerca di Irccs Neuromed evidenzia che la povertà conduce strati di popolazione a declinarla in modo poco salutare, scegliendo alimenti che sono nel paniere della dieta mediterranea ma, per la loro scarsa qualità, risultano ipercalorici e troppo salati, così peggiorando le condizioni di salute di tali settori di popolazione.
L’alimentazione non è il solo fattore di promozione della vita in Italia: contano anche il clima, la varietà orografica (a loro volta presupposti della ricchezza delle materie prime alimentari), il mantenimento del legame con il territorio (nonostante i disastri paesaggistici e la violazione della natura che conosciamo).
Per questo una classe dirigente all’altezza dei tempi e orientata al futuro dovrebbe porre al centro della propria elaborazione e delle proprie politiche l’obiettivo di fare del nostro Paese, il “paese della vita buona”. Una prospettiva che lavori al miglioramento progressivo e costante delle condizioni di vita di tutti i cittadini (accorciando la forbice tra i pochi che hanno molto e i molti che hanno poco) e generi prodotti e servizi nuovi, destinati a uno straordinario successo sul mercato globale, che riaprano una traiettoria di crescita economico sostenuta e sostenibile (cioè con tassi elevati e rispettosa dei vincoli ecologici e storici).
Ne sono convinto da molto tempo, ne parlai con alcuni amici, tentai anche di far pervenire le mie riflessioni a qualche decisore politico, ma tutto cadde nel vuoto.
Ritengo ancora, oggi a maggior ragione dinanzi al degrado della contesa politica e al vuoto di programmi e visioni strategiche, che il progetto di un “Nuovo Rinascimento” sia la strada da imboccare con decisione e coraggio, con l’ottimismo sull’orizzonte di arrivo possibile per il nostro Paese.
Provo a indicarne alcuni presupposti e contenuti.

Perché la proposta

L’Italia seguita a perdere competitività. La sua crescita, nell’ultimo trentennio, ha tassi minori della metà della media europea.
La crisi che dal 2008 ha investito l’economia mondiale conosce in Italia livelli inusitati e mette allo scoperto la debolezza strutturale del Paese.
Anche la debole ripresa della congiuntura internazionale non garantisce una nuova fase di sviluppo per l’Italia. Le trasformazioni dell’economia globale hanno redistribuito ruoli e posizioni. Anche se l’Italia resta una delle maggiori realtà manifatturiere d’Europa non ci si può attendere che la sua attuale base produttiva farà da volano alla crescita.
Nelle produzioni tradizionali siamo destinati a perdere quote di mercato, perché le produzioni di massa seguiteranno ad essere delocalizzate verso aree a minor costo dei fattori (lavoro, energia, pressione fiscale). L’automazione dei processi, inoltre, può riqualificare alcune produzioni, riportarle nei Paesi a economia avanzata, ma, per la stessa natura strutturale degli impianti governati dalla digitalizzazione e popolati di robot, non creerà rilevanti progressi nell’occupazione.
Per tornare a crescere in modo significativo, per ritrovare un vero profilo competitivo, l’Italia deve immaginare e realizzare nuove prospettive. Deve innovare non solo e non tanto il proprio bouquet di produzioni, ma inventare nuovi prodotti e nuovi servizi, appetibili per il mercato internazionale.
Non basta il successo delle produzioni di nicchia (moda, enogastronomia e poco altro), perché un Paese delle dimensioni (demografiche e di PIL) quale il nostro non può vivere di esse.
L’Italia non potrà più contare di fare tante delle cose che avevano fondato la sua economia in passato e ha già perso molte occasioni per primeggiare in alcune delle filiere del futuro.
L’Italia, quindi, deve trovare strade nuove e originali, valorizzando le proprie potenzialità.
Deve inventare prodotti/servizi che ancora non esistono e che abbiano appetibilità sul mercato globale.

Quale orizzonte per il futuro?

L’80% della popolazione mondale vive nelle città, la tendenza all’inurbamento della popolazione è inarrestabile, perché le città sono fucine di sviluppo e offrono occasioni, anche se spesso illusorie. L’esplosione del movimento demografico verso l’attrazione delle città sta creando mostruose megalopoli e rende sempre più difficile vivere nelle metropoli.
Uno dei problemi centrali del XXI secolo è, e rimarrà, la vivibilità urbana.
Sapere elaborare, applicare ed evolvere un modello di vivibilità urbana è una sfida competitiva strategica. La vivibilità urbana, intesa come sistema di regole/strumenti/organizzazione, tradotto in tecnologie/cultura/amministrazione è un prodotto/servizio di cui monta una inesausta e possente domanda mondiale.
La costruzione di quel modello rappresenterà una risposta strategica alla crisi del consumerismo, alla chiusura degli spazi per buona parte delle produzioni tradizionali nei Paesi a economia avanzata, alla competizione tra gli innovatori.

La “vita buona”

Noi siamo il Paese che meglio di ogni altro può elaborare e realizzare il modello della “vita buona”.
Un modello, che può essere esportato, fondato sulla vivibilità urbana in armonico rapporto con il territorio e sulla creazione di comunità solidali. Di vivibilità urbana a misura umana c’è un gran bisogno e la crescita dei Paesi di nuova industrializzazione, l’approdo allo sviluppo di sempre nuove aree del mondo ne moltiplicheranno la domanda.
Perché l’Italia può candidarsi ad essere la prima a definirlo e proporlo?
Perché ne possiede le condizioni di base:
 la presenza di numerose città medie e piccole di antico insediamento;
 le culture e le tradizioni che in esse vivono;
 la loro collocazione in un ambiente propizio, tanto sotto il profilo territoriale che climatico;
 il patrimonio eno-gastronomico;
 la creatività e lo stile.
Mancano (o sono carenti) e vanno sviluppate altre tessere del mosaico:
 il sistema di istruzione integrato;
 la vocazione al benessere in chiave olistica
 la modernizzazione dei sistemi di sicurezza sociale e sanitari.

I percorsi di sviluppo del modello

Ci sarà molto da lavorare, ma su basi che rendono possibile vincere le sfide, affrontando le seguenti linee di sviluppo:
 creare sistemi di mobilità urbana, integrando offerta collettiva e traffico privato, in ottica di efficienza e minimo impatto ambientale;
 creare reti di assistenza (inclusa quella sanitaria) che integrano l’offerta pubblica con le iniziative del privato sociale, superando duplicazioni e allargando la protezione in un quadro di solidarietà economicamente sostenibile;
 creare una rete amministrativa adeguata alla dinamica dell’innovazione;
 rivedere il patrimonio abitativo coniugando la valorizzazione delle tradizioni con l’eco-edilizia;
 gestire il sistema di approvvigionamento energetico e idrico e quello di trattamento dei rifiuti nella prospettiva delle fonti rinnovabili e dell’adeguatezza delle forniture;
 generalizzare la copertura dell’accesso gratuito ad internet;
 evolvere l’offerta eno-gastronomica nell’esaltazione dell’alleanza gusto/salute e legarla ai circuiti del benessere;
 creare regole e condizioni di domanda, sul mercato, che spingano la finanza a sostegno della produzione, anziché avvitata su sé stessa;
 razionalizzare la rete distributiva per garantire accessibilità e adeguatezza.
Tutto questo confluisce nella creazione di quello che abbiamo chiamato: le città della “vita buona”.
Attraverso gli interventi che lo articolano e lo promuovono si può generare un rilancio selettivo dei consumi orientato alla qualità prima che alla quantità, ai servizi dinamici più che alla incessante sostituzione dei prodotti.
Un modo di evolvere la logica della smart city, trasfondendola in una nuova dimensione del vivere urbano, radicata sulla storia e proiettata nel ventunesimo secolo, a rendere effettivo lo sviluppo sostenibile, dentro la friendly good city in divenire.
Come ben si comprende, si tratta di un impegno multidimensionale, che si alimenta di innovazione tecnologica, crea investimenti, lavoro, nuova domanda: prima interna e poi, sull’onda dei successi che può conseguire, anche internazionale.
Una strada per far risalire il PIL parallelamente alla crescita della qualità sociale del Paese e per restituire all’Italia il predominio in una filiera del futuro.

Precondizioni del progetto

Come fondamento del progetto occorre costituire un “think tank” che metta insieme i migliori cervelli e le migliori competenze del Paese: imprenditori, amministratori pubblici, professionisti, politici illuminati, urbanisti, economisti, artisti, sociologi, ecc. Poiché la prospettiva disegnata apre ad una nuova leadership culturale del nostro Paese, sarebbe bello battezzarlo il “Club del Nuovo Rinascimento”.
Non un gruppo di pensatori votato alla filosofia del possibile ma una risorsa di intelligenza collettiva, scientifica e umanistica, per tracciare il progetto strategico di rilancio dell’Italia. Divenendo la fonte di ispirazione per il programma di un governo che guarda al medio periodo e supera la logica delle emergenze e del prossimo appuntamento elettorale e che seguiterà a fornire materiali per la sua attuazione ed evoluzione.
Al governo andrà chiesto di definire e gestire il percorso di progressiva realizzazione del progetto.
Ai politici che se ne faranno interpreti sarà affidato il compito di creare consenso intorno a questa moderna e credibile utopia, al fianco degli intellettuali che la animano, per rendere speranza collettiva una visione progressiva che può attrarre e mobilitare le risorse vitali del Paese, quelle che non si rassegano al declino, quelle che sono pronte a mettersi in gioco e a investire, ritrovando l’ottimismo dell’impegno per il domani.

Una politica industriale di innovazione

È chiaro che in un Paese come il nostro, con imprese deboli, frammentate e sottocapitalizzate, una buona parte degli investimenti per il decollo del progetto dovranno provenire dal settore pubblico.
Esso è chiamato a “dare il buon esempio” di sapiente coniugazione di risorse scarse, agendo per integrare le amministrazioni pubbliche, per massimizzare il ritorno delle spese, per garantire condizioni di equità e legalità alle dinamiche sociali ed economiche attivate dal progetto.
Ma al settore pubblico è anche richiesto di investire direttamente risorse finanziarie, oltre che promuovere tutti i canali di finanziamento privati mobilitabili.
Per reperire le risorse necessarie ci vuole il coraggio delle scelte.
In Italia i volumi di aiuti al sistema delle imprese non sono infimi. Essi, però, non generano sviluppo perché il sistema di sovvenzioni e fiscalizzazioni è impostato in chiave difensiva e si disperde in mille rivoli.
Vanno recuperate progressivamente risorse, oggi a bassa resa sociale ed economica, per finalizzarle al finanziamento del progetto del nuovo modello di sviluppo.
Investimenti diretti e agevolazioni vanno indirizzati ad iniziative centrali di start up del progetto, sapendo che le attività così promosse riusciranno a scatenare ulteriori protagonisti ed azioni, con effetto di filtering down e di auto alimentazione di volumi economici (anche creando indotti e canali secondari).
La strada può essere quella di destinare risorse premiali da assegnare attraverso meccanismi selettivi: concorsi internazionali cui possono accedere imprese di ogni parte del mondo. Non ci sarebbe rischio, in caso di aggiudicazione a soggetti esteri, di delocalizzazioni o di infeudamento a interessi lontani da quello nazionale, perché è la stessa natura del progetto a richiedere che esso cresca e di sviluppi in Italia.
Per accedere all’attuazione sperimentale del progetto, altrettanta concorrenza positiva, in termini di microprogettazione territoriale, va lanciata tra le città che si candideranno ad essere sedi delle prime attuazioni dei progetti e delle innovazioni materiali, organizzative e tecnologiche poste a base della “vita buona”.
La “vita buona” come mito concreto dell’immediato futuro, come stadio avanzato del vivere collettivo, nel quale l’Italia ritrova una via per crescere elevando la qualità sociale del Paese, promuovendo una nuova cultura civica diffusa in spirito comunitario e, per questa via, raggiungendo un profilo competitivo di rango globale che aveva perduto.

Una politica nuova per l’Italia del futuro

Fare politica industriale non è più considerata un’eresia.
Le illusioni del neoliberismo, la corsa sfrenata della finanza deregolamentata e svincolata dall’economia reale hanno creato egoismi e particolarismi a inaridire intelligenze e sentimenti per poi lasciare società prostrate ed insicure.
Va evitato di tradurre questa consapevolezza in chiusure nazionalistiche e nell’imposizione di barriere che bloccano gli scambi internazionali.
Alla buona politica è legittimo chiedere di elaborare progetti che restituiscono al futuro il segno della speranza ed il valore dell’utopia.
Il declino lento e inesorabile dei partiti ideologici, come il richiamo della foresta che sostiene quelli populisti chiedono di rilanciare il protagonismo di chi lancia idee e disegna un futuro che arma il sentire collettivo di un nuovo umanesimo.
Questo potrà essere il nuovo Rinascimento.
E che nasca in Italia mi sembra quasi un ineludibile ricorso della buona storia.

La città intenzionale

Ripropongo l’intervista all’architetto Stefano Boeri. Vi ritrovo elementi di riflessione e progettualità che mi fanno sperare in un domani di progresso in chiave umanistica. Che questo clima culturale si respiri e si affermi a Milano, l’unica città del Paese che mostra oggi i tratti della metropoli europea, non è casuale.
Nelle risposte dell’architetto Boeri si trova una visione lucida che unisce sentimento e ragione. Ad architetti e urbanisti che progettano il futuro delle città come visione intenzionale dell’ambiente per lo sviluppo sociale (che include e si alimenta di quello culturale e scientifico, fondamenti di quello economico) forse si dovrebbe prestare maggiore attenzione.
Splendidamente efficace la distinzione tra nostalgia e memoria, dove la prima è paralisi del divenire progressivo e la seconda radice di un futuro che sa trarne ispirazione e slancio.
Questa descrizione della Milano moderna che sta crescendo armoniosa e capace di tenere salde le sue radici storiche e paesaggistiche fa venire voglia di andare a vederla, dimenticando la Milano austera e triste dell’industrialismo e quella “da bere” improntata all’edonismo.

Intervista Stefano Boeri su Repubblica 7/10/2017

“Milano ce l’ha fatta, è vero, ma ora corre due grandi pericoli: l’arroganza e la nostalgia. Il salone del libro è la dimostrazione che Milano, quando si compiace troppo, diventa arrogante”.
E la nostalgia? “Proprio adesso che finalmente stiamo assaggiando il futuro, progettiamo il rimpianto: giustamente vogliamo sfruttare l’acqua, ma sogniamo quella delle vecchie cartoline, non l’acqua e il verde che ci possano fornire energia e aria pulita, ma il ritorno a una Milano premoderna con la riapertura totale dei Navigli. E l’audacia diventa surreale: una spiaggia a piazza Cavour, le gondole per andare alla Statale. Al fondo c’è l’idea che Milano possa prendersi tutto: rubare il salone a Torino, ‘O sole mio a Napoli, la laguna a Venezia”.

Milano sta tornando a dividersi. Sono due le parole del suo futuro: acqua e verde. “Milano è sempre stata una città bipolare: Milan e Inter, il Pirellone e la Torre Velasca, i panettoni Motta e Alemagna, la Cattolica e la Bocconi, Mondadori e Rizzoli, e c’erano quelli dell’Einaudi e quelli della Feltrinelli…”.
L’Einaudi a Milano era il mondo di tua madre, Cini Boeri, 92 anni, protagonista del design italiano, staffetta partigiana, la signora del Pci milanese. Nella sua casa, nella vostra casa in Sant’Ambrogio, cenavano dunque quelli dell’Einaudi: “Il cuore era la libreria Aldrovandi. L’Einaudi significava il Pci ovviamente, e ricordo, a cena da noi, Amendola, Napolitano qualche volta Pajetta e Berlinguer; ma quelli dell’Einaudi erano anche gli irregolari che per il Pci contavano persino di più, Volponi, Paolo Grassi, Luigi Nono, Spriano, Bertolucci, Elio Petri, Ugo Stille… rammento una visita di Piero Sraffa, persino di Olivetti. E ovviamente Guido Rossi. Si sceglievano i senatori, si trovavano finanziamenti alla Scala, si nominavano i direttori del Corriere”.
E quelli della Feltrinelli? “L’Einaudi significava la sinistra di potere, quella dell’egemonia culturale; la Feltrinelli era invece la sperimentazione e l’avventura e penso alla Pivano, a qualcuno del Gruppo 63, a Giulio Maccacaro, che fu il curatore della collana Medicina e Potere e andrebbe riscoperto “.
E Giangiacomo? “Nella mia giovinezza non c’è. Era un mondo molto vicino e tuttavia molto lontano”.
La sinistra milanese che allora si divideva tra potere e avventura ora si divide tra acqua e verde? “Con la bipolarità è facile andare avanti sino alla caricatura. Ma sarebbe meglio che per una volta Milano evitasse il derby. Personalmente subisco il fascino del doppio patriottismo, l’amore per i due destini da unire. Va sicuramente bene l’eleganza fragile del canale navigabile, dall’Adda sino a San Marco, e una darsena alle spalle del Corriere della Sera. Ma nelle strade della Cerchia il ruolo ornamentale non giustificherebbe l’impresa, risarcirebbe solo il ricordo ma diventerebbe difficile persino la circolazione di pedoni e biciclette; i marciapiedi dovrebbero essere allargati e in via del Mulino delle Armi, in via Sforza, in via De Amicis i navigli sarebbero canaletti, non dico di scolo ma… Aggiungiamoci la potenza moderna e pulita di un “fiume verde”, 45 chilometri di piante sopra e acqua sotto, che unisca le sette stazioni dismesse e faccia di Milano una città-parco, con una sesta linea di metropolitana, ovviamente di superficie, l’abbassamento della temperatura durante l’estate, l’energia pulita generata dalla geotermia ad acqua di falda e poi boschi, appartamenti a basso costo, finalmente una Moschea per i 120 mila musulmani di Milano costretti a pregare nei garage dove tutto diventa sospetto e pericoloso. E ancora, ai bordi, un sistema di torri. E campi di calcio, il Grande Pratone per i bambini”.
E Stefano Boeri fa lo schizzo di questa sua Milano, con il naviglio riaperto in via Melchiorre Gioia e la darsena a San Marco, e poi i 45 chilometri di verde che collegano appunto le sette stazioni: Farini, Porta Genova, Porta Romana, Rogoredo, Greco-Breda, Lambrate e S. Cristoforo.

Acqua o verde? Il sindaco Sala ha avviato entrambi i progetti, ma si sa che la riapertura dei navigli è il suo vecchio sogno. “Sala fa il sindaco con intelligenza e passione, ha investito 11 milioni sul risanamento delle periferie che a Milano sono in centro, con continui e improvvisi cambiamenti del paesaggio urbano e pezzi di territorio abbandonati alla criminalità”.

La Milano di Boeri è ancora quella delle famiglie. E, come ai tempi del Manzoni, dei Verri e dei Beccaria, anche l’illuminismo qui è endogamico: famiglie appunto, mogli, compagne, figli, nipoti. Il padre di Boeri era un famoso neurologo, il nonno un senatore liberale di sinistra: il blasone qui è l’antifascismo. E poi ci sono i modi, la cura di sé, il viaggio, le lingue, l’umanesimo, la laicità: “Io non sono nemmeno battezzato”. Dopo la separazione dei genitori arrivarono i libri di Vando Aldrovandi (“Al”) e i fotografi di Grazia Neri. In via Donizetti tra studio e casa vivono i tre fratelli Boeri: Sandro, il giornalista che ha inventato Focus; Tito, l’economista che guida l’Inps; e Stefano appunto, l’architetto. Il palazzetto Boeri è una trasposizione smorfiata del palazzo dei Verri dove anche la ragione e la città erano trattate come beni di famiglia.

Domando: qual è la differenza tra proteggere la memoria e abbandonarsi alla nostalgia? Boeri mi porta allora in via Festa del Perdono, nei sotterranei, dove c’è la cripta e dove Paolo Galimberti, straordinario archivista, custodisce i ritratti dei benefattori che sostenevano e finanziavano l’ospedale. “È un pezzo di Milano che nessuno conosce, e che dovrebbe diventare Museo, una fantastica galleria che racconta la storia della città “.
Ed è appunto una rete di famiglie, nobili e borghesi, mecenati e grandi professionisti. Nella Milano dei Boeri c’è il mondo di Guido Rossi, scomparso nell’agosto scorso, che fu al tempo stesso sostegno e frusta per l’establishment italiano, opposizione e sistema, l’alta finanza di sinistra pubblicata da Adelphi. E poi la Milano delle corti nascoste e delle case délabré come quella di Giovanni Agosti, il professore d’arte che appartiene alla razza in via d’estinzione degli intellettuali da torre d’avorio, che nella cultura italiana sono stati molto più importanti dei soliti noti, e parlo dei Bortolotto, Quirino Principe, Isella, Longhi, Mario Praz, Cesare Brandi, Giacomo Debenedetti, Contini…: come diceva Raymond Aron sono “ricci” mentre gli altri sono “volpi”. Boeri e Agosti sono inseparabili, anche se Boeri è volpe e Agosti è riccio. Guido Rossi, ha raccontato Agosti, “il cui corpo alla fine assomigliava a quello del Cristo di Grünewald a Colmar ” – poco prima di morire ha messo in mano alla moglie Francesca I promessi sposi “come il libro a cui chiunque si rivolge in tutti gli accidenti della vita, sicuro di trovarci una risposta o una condivisione almeno delle proprie inquietudini “. Rossi abitava nello stesso palazzo di Umberto Eco. E Stefano Boeri lavora perché le due preziose biblioteche vengano riunite: un enorme patrimonio di rarità che andrebbe protetto. E siamo di nuovo alla differenza tra memoria e nostalgia che “è il grande male dell’Italia smarrita “, la disperata via di fuga di un paese stupito e instupidito che in politica torna al proporzionale e si rifugia nel dejà vu anche nello spettacolo.
“E a Milano pensa che riaprire i navigli significhi tornare ai canali nebbiosi e ai baci sotto i lampioni. Ma la nostalgia alla fine paralizza, impedisce il futuro. Dal mio amico Celentano alla vecchia sinistra, in nome della nostalgia in tanti dicevano di non volere edifici sviluppati in altezza, ma in realtà non volevano costruire nulla. In campagna elettorale anche Pisapia era con loro. Non volevano neppure l’Expo che oggi riassume in sé la rinascita. Io non ho condiviso l’acquisto dei terreni ad un valore sedici volte più alto di quello agricolo, un affare per i proprietari. Ma l’Expo ha il merito di avere mostrato al mondo che Milano era ridiventata Milano. Dietro c’è un lavoro lungo, fatto di pazienza, sinergie, fortuna. E bisogna riconoscere che si cominciò, sia pure senza regole, con la prima giunta Albertini, si proseguì con la Moratti, e infine con Pisapia si trovò il senso”.
E cosi, con la complicità della grande crisi di Roma, l’Italia intera ha restituito a Milano il suo primato. Oggi Milano è l’altra Italia, quella dei vecchi e bellissimi tram, gli stessi dei quadri di Sironi, la sola Italia dove si cammina con il naso all’insù per via di quei palazzi ad elica che si attorcigliano in un barocco moderno.
“A parte il caso del Centro direzionale di Napoli, è vero. Ma l’unicità è una brutta bestia che trasforma l’orgoglio in superbia”. Esageri? “Sono le piccole cose che svelano le tendenze. Abbiamo inventato Bookcity, che funzionava perché faceva parte di un sistema integrato: a Torino c’era il Salone con tutte le novità dell’editoria; a Mantova il festival della letteratura offriva al pubblico l’incontro con gli autori; Milano organizzava la lettura diffusa, e la città diventava un club di strada dove una corrente di trasmissione del pensiero ci spingeva tutti verso il libro, così come nei giorni di Pianocity ci spinge tutti verso la musica. E potremmo organizzare pure Footballcity, tre giorni per giocare al calcio per strada, sulle scale delle chiese, dovunque. E non venitemi a dire che non è roba per architetti. Questa è riqualificazione urbana. Il lavoro dell’architetto è trasformare lo spazio della città, di cui siamo tutti coautori. E invece per hybris, per arroganza, in un colpo solo Milano ha aggredito il salone di Torino, ha ammazzato Bookcity, ha danneggiato persino Mantova. E purtroppo è stato pure un flop”.

Il flop è servito a capire? “L’educazione sentimentale dei milanesi è da tifosi, e dunque non c’è partita che non abbia sullo sfondo un vecchio rancore, un Milan- Inter di ritorno, rivalità arcaiche e sostanziali tra famiglie”.
Anche tra famiglie di architetti? “Soprattutto tra famiglie di architetti”. Gio Ponti contro Ernesto Nathan Rogers, Domus contro Casabella e, più avanti, Vittorio Gregotti contro Aldo Rossi. “Ecco, appunto. Ma io, che mi sono laureato con Bernardo Secchi e devo molto a Gregotti, ho scoperto la grandezza di Aldo Rossi e poi anche di Giancarlo De Carlo che a Milano era un alieno”. Diceva di essere anarchico, ma era molto vicino a Vittorini. “Non solo per questo Milano non lo accettava. Il punto è che non era di famiglia. Come Renzo Piano, che spesso veniva chiamato, ma poi era costretto a rinunziare. Ho una foto del maggio 1968 che misi in copertina su Domus dove c’è De Carlo che sembra Lenin: affronta i situazionisti, i maoisti, gli agitatori ‘dalla faccia cagnazza’ avrebbe detto Gadda. E tra loro si vedono, nientemeno, Giò Pomodoro, Emilio Isgrò, Franco Fortini, Franco Cerri, Enzo Mari, Ernesto Treccani… In mezzo c’è De Carlo, fragile e duro. Cerca di convincerli a non occupare la Triennale”. Ci riuscì? “No, e la sua Triennale fu distrutta il giorno dell’inaugurazione. Ma vale per la Triennale quel che vale per il giardino di Mallarmé, dove la ‘rosa più bella è quella che non c’è'”.

Ma le discussioni sul “come costruire” sono già vita nell’Italia del degrado progressivo e inarrestabile. “Sicuro. E a volte arrivare in ritardo può persino avere qualche vantaggio: oggi lo stile della nuova Milano è chiaro, funzionale, luminoso, trasparente, personalizzato e non sto parlando del mio Bosco verticale, ma dell’insieme delle costruzioni, un vero laboratorio di architettura: la ristrutturazione della Scala, la Triennale, l’area di Porta Nuova, Garibaldi e Isola, la sede del Sole 24 ore, Il Museo del Novecento, la Darsena, il Museo delle Culture, Portello, la Fiera, City Life, la Fondazione Prada, il Centro Armani, la sistemazione del Museo della Pietà Rondanini… E la Fondazione Feltrinelli, che è l’ultima arrivata, con quel cemento liscio, il legno chiaro e l’acciaio”. Il Bosco verticale fu trattato come uno strampalato capriccio prima di diventare l’icona di Milano, un edificio replicato in mezzo mondo e premiato anche con l’International Highrise Award. “L’architettura purtroppo comincia sempre lottando con gli indici di gradimento. All’inizio si oppongono tutti, poi…”. Anche gli altri architetti? “A Milano sicuro”. Gregotti ha scritto…: “Sì, ha scritto, più o meno, che il mio Bosco verticale lo aveva già inventato suo zio mettendo le piante nel balcone”.
Chissà, c’è una parentela con tutto. Anche tra queste due torri – di 110 e 76 m, con 800 alberi (di 3, 6 o 9 metri ciascuno), 4.500 arbusti, 15.000 piante e fiori e la canzone di Paolo Conte: “Nelle ombre di un sogno / o forse di una fotografia lontani dal mare / con solo un geranio e un balcone”.

Non eroi. Uomini e donne con dignità.

Felice è la società che non ha bisogno di eroi. Noi che ancora costringiamo a diventare eroi quelli che si impegnano, con il loro lavoro e il loro impegno civile e professionale, impariamo dal loro esempio per farne la normalità dei nostri comportamenti. Così costruiremo una società in cui tutti potremo essere liberi, rispettosi, solidali, onesti, sereni. Per un domani senza eroi e senza spazio per mafie e malandrini.

 

Now I’m 64. (Ringraziando gli amici che hanno ricordato il mio compleanno a marzo 2018)

Detto all’inglese. Non per moda, ma per efficacia nella sintetica formulazione anglosassone.
È sempre bello ricevere gli auguri, segno che gli amici ti pensano, che ti ricordano, che quel che hai offerto in sensibilità attenzione, scambio, proposta, vicinanza, ti ritorna in affetto.
Ringrazio chi mi ha dato questo segno, nelle varie forme che ciascuno ha voluto trovare.
Passai il giorno del compleanno tra una visita agli Uffizi, le delizie di un ristorante storico che rivisita la cucina fiorentina tradizionale, una passeggiata nel centro di Firenze. Vivere vicino ad una città formata di bellezza e di storia, di elegante armonia e di cultura è uno dei tratti che compongono il mosaico della mia nuova vita e che mi confermano vincente la scelta di trasferirmi a Viareggio.
La sera, rientrando a respirare la brezza marina, assaporo quanta felicità si possa trovare nelle piccole, immense cose di una quotidianità restituita alla misura dell’umano.
I compleanni non sono candeline su una torta, sono pietre miliari nel cammino dell’esistenza. Ci permettono di guardare la strada percorsa e di apprezzare le esperienze che ci hanno portato dove siamo, di raccogliere la ricchezza dei successi, degli inciampi, della continua ricerca che ci rende più autentici. Ci aiutano a volgerci al domani, alle tante cose che ancora vorremo vedere e provare.
Sapendo esprimere l’ottimismo nel futuro, comprendendo che è invano interrogarsi sul senso della vita, perché – come mi insegnò un antico maestro – la vita è un senso.
Tutto dobbiamo affrontare con la capacità di coglierne i germi del progresso, dell’evoluzione possibile. Anche con il personale contributo.
Nonostante la confusione e le paure che se ne alimentano intorno a noi. Nonostante il tramonto di una sinistra nella quale è aperta la gara a riesumare feticci di un secolo che non c’è più, in un rinfacciarsi di aver lasciato cadere valori che non hanno più base, in una farsesca rincorsa a chi guarda più indietro. Nonostante ai valori della politica alta si sostituisca la somma di egoismi e tribalismi, magari ammantati di icone tecnologiche – con il mezzo che sminuisce il contenuto fino a sostituirlo – e alimentati dalla speranza in miraggi salvifici.
Il mondo rotola avanti. Prima o poi qualcuno riuscirà a interpretarne la deriva, a tracciare una rotta.
Intanto continua a domandarmi, ammirando l’architettura rinascimentale simboleggiata da Piazza della Signoria e dal centro che la circonda, come non si comprenda che rimettere la cultura, il territorio, le città, l’ambiente, al centro di un grande progetto sarebbe la risposta più forte, a migliorare la vita delle comunità e a generare un rinnovato sviluppo in grado di rispondere all’economia ed alla civiltà.
Partire da questo, da un disegno di elevato profilo, leva di un mutamento di scenario a tutto campo, potrebbe superare le deboli e spesso irrealizzabili risposte parziali con le quali la politica di corto respiro cerca di captare consensi settoriali, esasperando e non favorendo una dialettica positiva intorno ai conflitti che attraversano la società.
Ancora grazie a chi mi ha pensato ieri. E buona vita a tutti.

Dopo le elezioni

Il popolo di sinistra coltivava un’illusione, ma la sua intelligenza s’è smarrita alla quinta stella a destra, quando, risvegliato al mattino, scopre che quell’isola proprio non c’è.