Trascorsi un po’ di giorni e tornando alla vita
quotidiana, posso tentare qualche riflessione sull’esperienza della lunga
crociera che, in oltre trenta giorni sul mare, mi portò in luoghi tanto diversi
tra loro e mi tenne a bordo di una città galleggiante che brulicava di persone
e attività.
Restano vibranti le emozioni, quelle che accesero i sensi. Di esse narrano le impressioni scritte di getto, al rientro da ogni escursione, che già pubblicai singolarmente e che ripropongo in questo raccontino.
Una crociera che muove repentinamente da una località all’altra
non ti fa conoscere davvero nessuna delle località che tocchi e calchi.
Sono visioni puntuali di siti, sfiorati o percorsi nel
volgere di poche ore.
Certo la natura scuote, con i suoi panorami che
improvvisamente mutano.
Altrettanto le costruzioni dell’uomo, nella storia, sia
essa quella remota delle antiche civiltà o quella più recente e perfino contemporanea,
sanno indurre a meravigliata ammirazione.
Tutto così di seguito entusiasma, ma anche frastorna.
Passare di alba in tramonto nelle isole caraibiche è un
susseguirsi di giochi di luce, colori, profumi e stimoli che fanno confondere la
memoria dei vari approdi.
Difficile decidere quale isola abbia maggior fascino, perché,
in fondo, di ciascuna si coglie appena un assaggio da cui si cerca di comprendere
il gusto di fondo che essa sa offrire.
Le mie cartoline di viaggio, scritte “a caldo”, ogni
giorno, sono un pallido tentativo in quella direzione. Molto soggettive, molto
legate alla relativa casualità del sito che ci accolse, della modalità di escursione,
della congiuntura climatica, della simpatia e professionalità delle guide
locali.
L’accostamento alla civiltà Maya credo mi abbia
consentito, con visite ripetute, di entrare con buona profondità nella storia e
cultura di quel popolo. Questa parte, per quanto ancora approssimativa, posso considerarla
compiuta, un’esperienza di viaggio che – non essendo io un cultore della civiltà
precolombiane – non vorrò replicare.
Giudizio sospeso sulle Canarie. Terre affascinanti e
particolari, non ci sono sembrate il mare adatto alle nostre inclinazioni, con
le loro spiagge vulcaniche e il vento battente.
Le città dell’Europa sono contenitori di storia e arte nelle
quali le scoperte non finiscono mai. Per questo tipo di turismo la crociera non
è la scelta migliore. Si finisce per perdere parte dei tesori artistici e di
fermarsi in località funzionali alla navigazione ma non di particolare interesse
(come Savona).
Quanto dico per le crociere vale anche per i tour
organizzati che corrono tra le città d’arte. I fondisti del turismo, tra
macchine fotografiche mai spente e ombrellini alla giapponese, rischiano un
collasso estetico da overdose.
Meglio scegliere, rinunciando ad andare dovunque e
dedicare il tempo necessario per godere dei capolavori dell’arte, per soffermarsi
a vivere l’incanto della bellezza e non vederla scorrere smorta davanti a uno
sguardo fuggevole.
Bene l’ho imparato da quando lasciai il lavoro e iniziai una
vita che non obbedisce ai rintocchi delle ore, da quando ebbi l’opportunità di
dedicarmi a conoscere Firenze, ad ammirarne l’architettura passeggiando tra i
suoi palazzi, a ritornare nei suoi musei senza passare lesto da una stanza alla
successiva, fermandomi davanti alle opere che parlavano al mio sentire e al mio
capire.
Non vorrei esser frainteso: l’occasione della crociera
propone comunque scorci urbani che forse non avrei altrimenti messo nei futuri
programmi di viaggio: Bari, a esempio, che mi ha piacevolmente sorpreso con la
sua città vecchia.
Le mie schede giornaliere sono tutte legate a escursioni
nelle località che descrivo.
Non c’è scheda per i giorni interamente dedicati alla
navigazione.
Non ci si annoia, neppure in quelle giornate.
Parlerò più avanti della vita di bordo. Ora voglio
narrare delle sensazioni suscitate dall’essere in mare aperto dal risveglio
alla notte successiva.
Già destarsi con la visione dell’azzurro sconfinato del
mare è una condizione stupenda. Se le nuvole lo permettono, si può perfino
godere dell’alba, che lancia i suoi raggi dietro alle coltri lattiginose e,
piano piano, spinge la luce a impadronirsi del cielo. In un momento
indeterminato e improvviso, la superficie dell’oceano, all’orizzonte, si fonde
con il celeste della volta che la sovrasta. Le sfumature del blu percorrono
tutto lo spartito dei colori: il tenue polvere affianca una striscia di
elettrico e poi, via via, è un intersecarsi di topazio, di zaffiro, intorno a
una larga macchia di smeraldo e, più lontano, domina il cobalto scuro, alonato
da una pellicola d’azzurro fiordaliso che quasi stinge in un bianco fantasma, lì
dove incontra il celeste pallido della fine del cielo.
Uno spettacolo sublime, nel mutamento continuo creato dal
flusso delle onde, dalla variabile profondità dei fondali e dall’inseguirsi
delle nubi, che si gonfiano e si lacerano per poi riproporsi, simulando figure
quasi mitiche sopra di noi.
Stare a lungo lontano dalla terraferma porta a fissare
gli occhi sul mare, osservando particolari altrimenti trascurati.
Passeggiando sul ponte più basso (terzo piano) si ha modo
di misurare l’altezza delle onde, che, pur con un mare tranquillo, si alzano di
mezzo metro almeno, schiumando sicure e possenti.
Un mattino, dopo qualche giorno di navigazione, capita di
scorgere uccelli in volo. Segno che terre emerse sono vicine. Vien da pensare quale
sollievo l’incontro con le creature alate portasse ai marinai che solcavano l’oceano
nei secoli andati, quando partivano per terre ignote senza alcuna certezza di
raggiungerle.
Forte è la sensazione del vento che ti assale quando, nel
pieno dell’oceano, osi camminare sul ponte alto (piano 10). Cerchi di
resistere, ma alla fine cedi e rientri al coperto, scendi le scale interne e decidi
di fare la tua camminata salutare al meno esposto ponte tre.
Quando la nave lascia un porto all’ora del tramonto, gli
altoparlanti fanno salire nell’aria le note di “Con te partirò”, cantata da
Bocelli, ed è difficile resistere alla suggestione senza che una lacrima imperli
le palpebre.
Un transatlantico da crociera è una città galleggiante. Un
microcosmo nel quale migliaia di persone convivono in qualche centinaio di
metri elevati su una decina di piani.
Tutto funziona grazie al lavoro duro e costante di molte
centinaia di addetti, dal comandante fino a quelli che badano a pulire e riordinare
camere e spazi comuni.
C’è da esser loro grati, non solo per l’abnegazione con
cui si dedicano ai compiti affidati, ma pure per i sorrisi e la gentilezza che
dispensano in ogni occasione.
Per intrattenere gli ospiti sono programmate continue
attività di animazione, ci sono piscine, spa, palestra, teatro, sale giochi
(compresi quelli d’azzardo, che sono attive soltanto durante la navigazione).
E bar, ristoranti, buffet quasi sempre aperti.
La sfida alla linea è tracotante e continua.
Si potrebbe mangiare dal mattino alla sera, senza problemi
di spesa, perché il vitto è sempre compreso e solo le bevande seguono regimi specifici
e differenziati per tariffa e classe di appartenenza al club.
Il popolo dei crocieristi ha una composizione
sociologicamente assai singolare.
Come ovvio, in una crociera di oltre trenta giorni la
prevalenza è di persone non in attività lavorativa. Pensionati con apprezzabili
disponibilità economiche costituiscono, quindi, la larga maggioranza. Il livello
di reddito è importante non tanto per il costo medio della crociera, il cui
prezzo giornaliero è del tutto comparabile a quello di un albergo a tre stelle
in una grande città (o di un cinque stelle sul Mar Rosso). Anzi, considerato
che nel costo della crociera è compreso il trasporto, forse, confrontando il
costo di un albergo con pensione completa e quello della nave, quest’ultimo potrebbe
risultare più favorevole. Tuttavia, questo accade se il viaggio si prolunga
fino oltre i 30 giorni, perché le tariffe sono via via mediamente più
convenienti in proporzione alla durata della crociera. Per conseguenza, chi si
imbarca su una nave transoceanica deve avere soldi da spendere. Anche perché non
varrebbe la pena andare in crociera e non partecipare alle escursioni, il cui
costo è salato.
Tanto precisato, torniamo al profilo dei crocieristi.
Nella maggioranza dei pensionati sono comprese persone di
età decisamente avanzata e/o con non irrilevanti problemi di salute. La nave è
perfettamente attrezzata per garantire la piena fruizione dei servizi anche a
persone con disabilità.
Gli anziani mostrano di sapersi godere il viaggio, talora
anche partecipando a escursioni e attività che, a prima vista, si direbbero
loro precluse.
Rammento che lessi un servizio giornalistico nel quale si
parlava di anziani che vivevano in permanenza in crociera. La tariffa dei
viaggi, per loro, era inferiore a quella di una buona casa di riposo. In crociera
c’è l’assistenza medica (con interventi a pagamento, ma si può rimediare con
una buona assicurazione sanitaria). In crociera si può stare in compagnia,
assistere a spettacoli, vedere il mondo, prendere aria buona… Insomma: se si ha
denaro sufficiente è una vita certamente più allegra e varia di quella che si
avrebbe anche nel più igienico e curato rifugio per anziani. Si può vendere
casa e, con il ricavato, trascorrere anni in nave…
Non so se siano esagerazioni mediatiche, ma quel che ho
visto mi fa pensare che l’ipotesi sia plausibile.
I pochi giovani visti in crociera ne partecipavano per
frazioni (era possibile imbarcarsi in alcuni porti intermedi e altrettanto
lasciare la crociera prima della méta finale).
Tra le proposte di animazione, le più gettonate erano i
corsi di ballo.
E la sera, per chi voleva: teatro, discoteca, balli sui ponti.
Non posso parlarne, perché noi preferivamo riposare. Rientrare
in cabina, guardare le stelle sul balcone, respirare il profumo salmastro, commentare
la giornata, luoghi ed escursioni, leggere il diario di bordo e preparare le
giornate successive. Poi spegnevamo la luce e ci mettevamo a dormire,
dolcemente cullati dal dondolio delle onde.
In nave si perde il senso del tempo. Non ci sono urgenze,
salvo le mattine in cui bisognava andare ai punti di ritrovo per la partenza di
un’escursione. Anche in quel caso, tuttavia, gli orari, alla fine e tranne
poche eccezioni, erano molto laschi.
Ciò rende il viaggio molto rilassante e aiuta a viver
bene l’essere come “fuori dal mondo”.
Si dimentica ogni frenesia, si entra in una dimensione mentale
direi “giamaicana”, accantonando crucci e orologi.
Nella mia esperienza, quando fui nel nuovo continente, smarrii
il contatto con la realtà di provenienza. In nave Internet non arrivava o si
prendeva – peraltro con costi elevati – con lentezza e continue cadute di
linea. La TV riceveva solo stazioni locali o qualche rassegna leggera delle
televisioni nazionali tedesche, inglesi, francesi. Dell’Italia si vedeva RAI 1,
con una programmazione sfalsata e ridotta, nella quale non riuscivo a
rintracciare notiziari.
Patii un po’ l’assenza di informazioni d’attualità.
Il servizio Intenet riservato ai social (l’unico con
tariffa accettabile, peraltro anch’esso labile nella connessione) valeva
proprio solamente in dimensione “social”: condividere post individuali e
soggettivi. Ogni riferimento a notizie non native sui social (che so: un
articolo di giornale o un blog internet) spariva nell’immancabile avvertenza:
pagina non raggiungibile.
In pochi giorni ci feci il callo. Più avanti ci
avvicinavamo all’Europa, dove i notiziari Tv tornavano visibili e la possibilità
di rientrare nella rete telematica UE si riaffacciò.
Ritrovai e registrai la deriva politica, con il governo
gialloverde che seguitava a fare propaganda, ad aizzare i rancori, del tutto lontana
dal risolvere i problemi del Paese. Durante la nostra vacanza il refrain non
era cambiato. M’ero solo risparmiato tristezze e rammarico.
L’ultima nota sul mio viaggio riguarda i sosia.
Anna e io ci divertiamo a notare la somiglianza tra le
persone che incrociamo e altre a noi note. Un gioco che facciamo ogni volta, in
vacanza.
Troviamo sempre “doppi”.
In crociera, data anche la gran quantità di imbarcati, ne
abbiamo intravisti di tutti: colleghi, attori, politici. Più vecchi, un po’ più
magri o più rotondi, con capigliature variabili.
Siamo rientrati a Viareggio con un angoscioso dubbio: il
collega che compariva in quasi tutte le nostre vacanze, da quelle in Egitto e
quelle sull’Adriatico, non s’è visto. Che sia emigrato su Marte?
A seguire, le mie impressioni sulle località visitate.
Per chi lo preferisse, sono consultabili singolarmente nelle pagine “Luoghi” del mio sito, corredate dalle più significative istantanee fotografiche che ne evidenziano ed evocano le sensazioni.
22 febbraio
Miami – Billion Dollars Legend
Miami, per come l’ho vista e mi è stata presentata, è una
metafora dell’America che non posso amare.
Una città dalla storia breve e concitata.
La costruzione urbana iniziò soltanto alla fine
dell’Ottocento.
Prima di allora, le coste assolate della Florida non
attiravano l’insediamento dell’uomo, perché il caldo e le zanzare non ne
facevano un habitat salubre.
L’evoluzione delle tecniche e della medicina e la
divisione delle vocazioni commerciali donarono, decennio dopo decennio, ruoli
economici e storici che portarono alla crescita esplosiva della città.
Dapprima valorizzata come ambita meta per i ricchi che
sfuggivano ai freddi inverni del Nord, poi passata a paradiso per gli anziani,
quindi stravolta e cambiata dalla massiccia immigrazione dei rifugiati cubani
fuggiti dall’isola conquistata dal castrismo, successivamente rilanciata dalla
funzione di base logistica per il commercio verso centro e sud-America, infine
consacrata quale base di nuovi talenti artistici, nella moda, nella musica e
nel cinema e rinvigorita l’economia del turismo, Miami, con la sua propaggine
di Miami Beach, conta oggi circa 5 milioni di residenti e una ricettività
turistica capace di accogliere più di 1 milione di ospiti l’anno.
La skyline cittadina è un susseguirsi di grattacieli a
ridosso del mare e si caratterizza per le isole artificiali che sono divenute
sedi per sfarzose abitazioni e alberghi di lusso.
La bellezza della costa affacciata sull’azzurro del golfo
finisce per essere posta in secondo piano dalla gara all’esagerazione che si
coglie nei profili degli edifici.
I grattacieli si arrampicano, affiancandosi e
districandosi intorno a corsi intasati di traffico e, sul lato opposto, a viali
pedonali stretti tra le alte facciate in vetro e metallo e le banchine che
fermano le onde, in una gara disordinata a mostrarsi più slanciati, più arditi,
più svettanti.
Le ville sono una successione ostensiva di grandeur e
preteso pregio architettonico, in una mélange di stili che richiamano la
vecchia Europa e il periodo coloniale, con gli yacht privati ancorati poco
oltre i muretti d’ingresso e un irrisolto confronto tra la voglia di privacy e
quella, soverchiante, di mostrarsi più ricchi dei vicini.
La vicenda di queste ville è emblematica. La loro
proprietà coinvolse artisti acclamati e vincenti, che però ne fecero beni
d’investimento e mai le resero loro effettiva residenza.
Il mito della ricchezza fa premio su tutto.
Le guide turistiche ci trascinano a vedere i fasti di
Fisher Island per vantare i prezzi d’acquisto dell’una o altra costruzione,
citando Al Capone come Ricky Martin, Sylvester Stallone come Gloria Estefan e
così via, in una girandola di cifre fino a nove zeri.
Sembra che la storia locale sia quella dei miliardari che
vi sono transitati, lasciando quelle ville che continuano a passare di mano.
Un’ubriacatura di “dollars” che suona vuota e, alla fine,
inconcludente.
Sarà vero che noi europei non siamo capaci di fare
business con la stessa disinvoltura degli statunitensi, che lo spirito
selvaggio del capitalismo qui trova modo di scatenare l’accelerazione dell’economia,
tuttavia in Europa le crisi sono meno crudeli e gli ammortizzatori sociali
riescono ancora a lenire gli assalti delle recessioni.
Così le roboanti cifre dei valori immobiliari mi generano
sconcerto e dubbi.
Un’affermazione della nostra guida mi colpisce, perché
contiene una verità e un’incombente minaccia.
“L’invenzione dell’aria condizionata ha cambiato questa
parte del mondo, portandola al successo residenziale ed economico”.
È così: dove prima era quasi impossibile vivere in tutte
le stagioni dell’anno, quell’invenzione ha portato l’esplosione dell’afflusso
turistico e ne ha fatto un centro di sviluppo.
Ma il condizionamento dell’aria – esagerato in quantità e
diffusione – genera consumi energetici spaventosamente elevati.
L’altra faccia della metafora per me negativa
dell’America è qui: l’uomo, per dominare la natura, consuma con insaziabile voracità
i valori ambientali.
Resta vero quel che già molti anni fa si criticava della
potenza economica americana e dell’american way of life. Se quel modello di
sviluppo e di vita si estendesse a tutto il globo, il nostro pianeta
soffocherebbe nell’inquinamento e nelle devastazioni ambientali in pochi
decenni.
Un popolo che non ha radici storiche moltiplica i
grattacieli non per carenza di spazio, ma per cercare sempre più in alto
un’identità che gli difetta.
Non è un esempio da imitare, ma un comportamento da
correggere.
Che il Presidente Trump esca dagli accordi sul cambiamento climatico e voglia costruire muri, davvero non è bene per il nostro futuro collettivo sulla Terra.
24 febbraio
Gran Cayman – Il fascino delle onde
L’isola di Gran Cayman offre una natura ricca e assai
curata a far da contorno a insediamenti in gran parte di elevato livello
abitativo.
Una terra per il turismo e per le residenze di lusso.
Un lusso che qui non viene ostentato, che non ha bisogno
di gareggiare per il primato.
Tutto molto discreto, in un’ovattata quiete, che viene
presentata tranquilla al punto da non conoscere delinquenza.
Un paradiso fiscale, com’è universalmente noto. Ma
sorprende per l’assenza della volgarità che, nell’immaginario collettivo,
s’accompagna all’accumulazione della ricchezza esentasse.
Le strade sono moderne e i collegamenti efficienti.
Si può godere della bellezza di una vegetazione varia,
colorata, salubre e di un mare meraviglioso nei colori e nelle dolci anse che
si susseguono percorrendo l’isola da costa a costa.
Non manca il richiamo alla pirateria, nei fantocci
variopinti all’esterno dei locali che propongono il ruhm.
La distesa di rocce scure e appuntite chiamata Hell è un po’
deludente. Bassi e aguzzi picchi irregolari su una limitata superficie non
valgono come attrazione. Ma forse l’attitudine a esaltare anche ciò che non
eccelle è retaggio coloniale dalla tradizione inglese: ricordo quanto nella
vecchia Albione si magnifichi Stonehenge, che vale assai meno dei ruderi
nuragici della Sardegna.
Toglie il fiato, invece, la lingua di terra sulla quale
le onde dell’oceano si infrangono veementi dopo essersi orgogliosamente
gonfiate in flussi corti e possenti. La schiuma si alza sulle rocce e si spezza
in un vortice di spruzzi finissimi, freschi, pungenti, profumati di sale. Una
fitta e bassa distesa di piante grasse arriva fino a lambire la scogliera, a
mostrare come la natura sappia racchiudere in spazi angusti i contrasti più arditi.
Viene voglia di fermarsi ore ad ammirare questo
spettacolo: una miniatura di burrasca, una danza d’acqua e di brezza.
Certamente la parte più affascinante della gita.
Poi le coste continuano a fare capolino tra la
vegetazione e le case costruite con il mare quasi all’uscio.
Il tempo di vedere, al volo, sculture lignee di animali
locali, con un grande caimano grigio che occhieggia immobile sotto palme verde
smeraldo.
Infine una sosta in spiaggia prima che la lancia ci riporti alla nave.
25 febbraio
Jamaica – Musica e allegria
La Giamaica è terra di contraddizioni. Qui la povertà c’è
e anche in una visita turistica affrettata si percepisce nello sfilare delle
bidonville a lato delle carreggiate che il nostro bus percorre.
Nonostante questo, il tratto distintivo, come per altri
popoli caraibici e sudamericani di origine africana, cielo, mare e sole
generano una cultura orientata a vivere con allegria.
Il tempo, come lo conosciamo nelle società industriali e
postindustriali, qui non ha senso. Minuti o ore non misurano i momenti, che
sono tutti vissuti in un eterno e dilatato presente.
Jamaica no problem è uno slogan per i turisti che trova radici nell’atteggiamento dei residenti
locali.
Si canta, si balla, si cerca d’esser felici. Anche solo
con quel che si ha.
I dieci minuti nei quali l’autista promette di portarci
al catamarano che ci aspetta sono in realtà oltre un’ora, con tanto di
imbottigliamento nel traffico in prossimità di un punto di gran richiamo
turistico. Ma non fa nulla. Si canta e si ascolta il racconto della voce calda
e lievemente roca del nostro driver e le sue esortazioni a sentirci, per questo
giorno, una grande famiglia felice, in pieno spirito giamaicano.
Anche in Giamaica la natura offre incantevoli giochi di
palmizi, di fiori, di vie che costeggiano strette rive affacciate sull’azzurro
intenso e cangiante del mare.
Le cascate del fiume Dunn deludono per quanto
l’iconografia turistica le aveva esaltate.
Di altezza esigua e profondità limitata non emozionano
gran ché.
La spiaggia sottostante è amichevole e suggestiva, con le
sue acque invitanti.
Il pezzo forte della gita, per noi, è il rientro sul
catamarano.
Seduti sulla prua, veniamo schiaffeggiati dagli spruzzi
delle onde che alzano e scuotono simpaticamente il battello.
In mano stringiamo il bicchiere con il punch al ruhm del
quale ci deliziamo. La musica ci circonda e muove alla danza, nel precario
equilibrio sul ponte oscillante.
Divertimento puro.
Reggae ma non solo.
Poi si deve rientrare, con nel sangue quel ritmo e la bellezza di un popolo e della sua terra assolata e ventosa.
27 febbraio
Belize – Tripudio della vegetazione
Una nazione giovane che percorriamo nella sua parte
settentrionale.
Vediamo in città un’architettura post-coloniale, priva di
fronzoli, poi alberghi a cinque stelle più simili ai resort del Mar Rosso che a
quelli sontuosi dei più ricchi Paesi caraibici.
Le strade sono poco curate, con frequenti tratti scabri.
I dossi si susseguono, a imporre velocità moderata.
Fuori dai centri abitati, baracche sparse mostrano una
povertà non dissimulata e dignitosa.
In bus, ci dirigiamo al sito Maya di Altun Ha.
Sarà una visita non entusiasmante, perché si tratta di
poche piramidi in rovina intorno a una spianata che si apre nella foresta.
Anche l’illustrazione di storia e architettura non riesce
a catturare l’attenzione, in un inglese veloce e urlato.
La parte migliore del viaggio è lo spettacolo della
foresta, che si staglia quasi fin ai margini del mare e intorno al grande
fiume. Alberi di svariata foggia e colori dolci, in mille toni di verde e di
giallo. Le mie infime conoscenze botaniche non mi consentono di citare le
specie vegetali, ma resto incantato dall’intreccio tra tronchi robusti e rami
attorcigliati con fogliame a formare siepi o chiome tra le quali balenano i
raggi del sole. La foresta è rigogliosa ma non fitta, permette di camminare
sotto gli alberi e apre spazio alla vista e alla curiosità.
Secondo il racconto della guida, anche la fauna locale
offre varietà di specie, selvagge come meno pericolose, ma il tour odierno non
ci porta a incrociarle.
Si rientra a Belize City con un giro al mercatino del
porto.
Guardando le bancarelle e i negozi abbiamo la conferma
che il turismo in Belize non ha ancora raggiunto le vette che questo mare dai
riflessi di smeraldo può richiamare.
La costa non ha un pescaggio sufficiente per l’attracco
delle grandi navi da crociera, che restano ancorate al largo.
Le lance guizzano veloci dalle banchine ai
transatlantici, con i passeggeri accalcati e ormai stanchi per le escursioni.
Il vento soffia forte, le onde danzano intorno agli
scafi, mentre le nubi si gonfiano, sembrano impadronirsi del cielo e negare il
dominio del sole. Ma sul mare aperto tutto cambia in un attimo e nuovamente la
volta celeste si apre ai raggi della sfera rovente che gli antichi indigeni
adoravano come loro Dio.
Il sole si libera e le onde si tingono di barbagli
luminosi.
La visione del mare è il respiro dell’infinito.
28 febbraio
Costa Maya – Mare d’incanto e vestigia Maya
Costa Maya è il nome di un attracco turistico creato
appositamente per l’ancoraggio delle grandi navi da crociera.
Vi giungiamo al mattino, poco dopo il levar del sole,
affiancando altri due transatlantici che navigano su rotte simili alla nostra.
Il mare inizia a tingersi d’ogni tonalità dell’azzurro.
In pieno pomeriggio sarà una luminosa distesa turchese, ravvivata da sfumature
più scure e sbuffi bianchi di schiuma.
Un incanto.
Lasciato il terminal, fitto di negozi per turisti (invero
dai prezzi piuttosto alti), dirigiamo in bus verso il villaggio di Chacchoben,
antico insediamento Maya scoperto di recente e non ancora del tutto portato
alla luce.
I Maya furono un popolo debole e sfortunato. Vivevano
nella giungla, di quel che nella giungla
si trova.
Come era bassa la vegetazione, anche i Maya avevano bassa
statura. Agricoltori e cacciatori, furono invasi da popoli guerrieri, fino
all’arrivo degli spagnoli. Il loro Dio principale, identificato nel sole,
veniva raffigurato bianco e barbuto; i sacerdoti e i re erano ornati di piume
di serpente. Fernan Cortes, il conquistador del Messico, che allora non aveva
ancora preso quel nome, era bianco e barbuto e venne accolto come
personificazione del dio solare. Gli spagnoli vedevano nell’immagine del
serpente il simbolo del demonio.
Volontà di dominio, brama di ricchezza e simbologia
religiosa scatenarono la furia dei colonizzatori e in breve, complici le
malattie importate dall’Europa, gli indigeni Maya vennero quasi totalmente
sterminati.
Ne sopravvivono piccole comunità nei villaggi della costa
Maya, ancora legati alla loro lingua e alle loro tradizioni, a vivere mangiando
mais e frutta e gli animali della foresta, compresi iguana, scimmie e serpenti.
A Chacchoben si possono vedere le piramidi funerarie,
parzialmente restaurate nella foresta. Nel sito è ben evidente l’organizzazione
della vita antica, con lo spazio per il mercato e le costruzioni celebrative.
Molte montagnole indicano la presenza di altri templi, ancora ricoperti di
vegetazione e detriti.
Di notevole interesse è la varietà delle piante che si
alzano a fecondare la giungla.
Alberi da frutta, altri velenosi le cui radici sono
avvinte agli alberi della medicina, in una sorprendente simbiosi tra il male e
il suo antidoto. Poi alberi da cui trarre una poltiglia che vale per creare una
specie di chewing gum da unire al mais fermentato o da impiegare per legare il
cemento.
Palme con le cui foglie si costruivano (e ancora lo si
fa) tetti per le capanne.
Tutte queste informazioni le dobbiamo al buon Moysia,
simpatico e attento nel suo ruolo di guida del nostro gruppo di gitanti.
Il gioco di sfumature verdi e gialle tra il fogliame, al
perenne cambiare della luce del cielo,
I tronchi, da cui partono sciarade di radici affioranti o
nascoste, sono lisci e duri o scavati e anneriti, con nidi di termiti, quando
non cavi a celare l’acqua che arriva dal sottosuolo.
La visita scorre veloce, poi il bus ci riporta alla base.
E qui, risalendo sulla nave, il nostro sguardo si ferma, rapito e ammaliato dalle onde di un turchese via via più intenso, in attesa del tramonto.
1° marzo
Cozumel – Fascino e storia a Chichén Itzà
La tre giorni dedicata a visitare l’archeologia Maya si
conclude, come in crescendo rossiniano, con il sito di Chichén Itzà, che ne è
la massima espressione.
Nel viaggio d’avvicinamento, la nostra guida, Carlos,
messicano di Merida con ascendenti indigeni, ci racconta scorci di storia e di
cultura, stupendoci con le conoscenze astronomiche del popolo Maya, a fondare
la loro complessa numerologia: una matematica simbolica capace di contare fino
quasi all’infinito.
Ma prima, una curiosità.
“Chicle”, il nome che universalmente indica la gomma da
masticare (il chewing gum degli anglofoni) è temine maya. Nella lingua di
questo antico popolo “Chi” significa “bocca” e “cle” sta per “masticare”. I
maya usavano una gomma ricavata da un albero, simile al caucciù, per ripulire i
denti dopo i pasti. “Chicle”, appunto. Un vago richiamo onomatopeico, come
altri loro termini, quali il nome del dio della pioggia, chiamato “Chaka”.
Va ricordato che, come molti popoli antichi, i Maya erano
politeisti, o meglio panteisti, cioè credevano manifestazioni divine fenomeni e
parti della natura: il sole, la luna, la pioggia, il fuoco, il vento, il
giaguaro, il serpente, tra i principali.
Il calendario maya era sdoppiato. C’era quello civile
(Haab) e quello rituale (Tzolkin). Il primo riusciva a centrare i 365 giorni
della rivoluzione solare, il secondo si ispirava ai cicli lunari e si chiudeva
sui 260 giorni (13 cicli) corrispondenti alla fase dalla fecondazione alla
nascita.
Per l’identificazione delle date era preso a base un
inizio, posto in un giorno (13 agosto 3.113 A.C.) che segnava l’inizio del loro
mondo. A partire da esso, contando lo scorrere del tempo in giorni, i due
calendari si affiancano, formando secoli pari a 52 dei nostri anni e riuscendo,
con grande precisione, a cogliere la successione delle rivoluzioni lunare e
terrestre.
Per misurare giorni, anni ed ere, la loro matematica usa
simboli (punti, linee, geroglifici) che, mediante ordinate successioni di
segni, sa individuare precisamente ogni giorno su un arco temporale di 190.000
anni.
Cercando di afferrare queste rivelazioni, entriamo nel
sito.
Chichén Itzà fu il principale insediamento Maya, centro
del commercio di quel popolo, forte, al suo apogeo, di 50.000 abitanti.
La deforestazione da loro stessi scatenata per estrarre
il liquido che mutavano in gomme e poltiglie commestibili come in collante per
stucco, portò al decadimento della città, che era quasi deserta all’arrivo
degli invasori spagnoli.
Nel frattempo, i Maya erano stati sconfitti e dominati
dai Toltechi, che scesero dall’altopiano centrale messicano.
Così la costruzione più imponente, scoperta alla fine
dell’Ottocento, è una piramide dall’architettura che risente dell’impostazione
tolteca, pur mantenendo l’ispirazione rituale Maya.
Una piramide che, come recentemente scoperto, venne
edificata intorno ad un’altra più piccola, che, a sua volta, ne conteneva una
terza, in una sorta di gigantesca matrioska.
La piramide di Kukulcan (che per i toltechi era invece
dedicata al dio serpente Quetzalcoatl) evidenzia una serie di gradoni a base
52, sviluppata per nove piani fino a simboleggiare i mesi dell’anno, sovrastata
da un parallelepipedo che consente di completare esattamente la numerazione dei
giorni.
Lungo i suoi gradini sono scolpite incisioni stilizzate
che richiamano, anche grazie a una sapiente inclinazione delle pareti diagonali
che cattura i raggi del sole, la danza del dio serpente. I gradini sono
stretti, tali da costringere i sacerdoti che li salivano ad alternare i piedi
in un moto oscillatorio che imita quello del serpente.
La piramide è imponente e carica di fascino, eretta in
posizione orientata a segnare, nel ricorrere del solstizio, l’esatta divisione
tra le pareti illuminate e quelle in ombra: la vita svolta nella morte, che non
ne è l’epilogo, ma l’inizio di un ciclo purificato dal passaggio
nell’inframondo.
Questa credenza ancor oggi fonda il culto della “Santa
Muerte”, celebrato in Messico l’ultimo giorno di ottobre con una devozione
religiosa cui suona a oltraggio l’adesione al mito di Halloween, importato dai
gringos nordamericani e sguaiatamente festeggiato subito dopo, ai primi di
novembre.
Chichén Itzà conserva l’assetto di città, in una pianta con
un ampio spazio per il mercato, tra colonne che un tempo reggevano coperture in
legno e la lunga piazza rettangolare dove si svolgeva la gara rituale della
pelota, che culminava con il sacrificio agli Dei del capitano della squadra
vincente, massimo onore per richiedere la benevolenza celeste. Non una tenzone
sportiva, come la concepisce il mondo moderno, ma un esercizio di abilità che,
nei solstizi, al 21 di marzo e di settembre, voleva ingraziare i favori degli
Dei alla comunità.
Peccato che la solennità e lo spirito dell’antica cultura
vengano traditi e turbati dal mercatino diffuso che ha invaso il sito.
Artigiani e commercianti espongono bancarelle di fortuna
e stanziali tra i monumenti e inseguono i turisti con ammiccamenti per piazzare
la loro merce.
Sarebbe stato meglio tenerli all’esterno, magari
ampliando l’area mercatale che circonda l’ingresso al parco, ma ormai non si
riuscirà più a estrometterli. Il bisogno di lavoro è troppo, in un Paese dove
ancora la maggioranza della popolazione è povera.
La nostra visita è agevolata dal rapido correre delle
nubi, con un vento che amichevolmente porta momenti d’ombra e folate piacevoli
e profumate di foresta a mitigare la calura delle ore centrali.
Il rientro ci vede stanchi e le seggiole del bus,
rinfrescato dal condizionamento, sono un rifugio per oltre due ore lungo strade
dritte e chiare.
Concludiamo l’escursione sul traghetto, tenendo il viso al vento e respirando l’aria salmastra del golfo caraibico.
3 marzo
Miami viva com’è
Miami non è solo ostentazione, sfarzo, mito della
ricchezza agognata ed esaltata.
È anche il quartiere Art Déco, con le sue costruzioni
basse, discrete, slanciate a imitazione delle navi che arrivavano in porto.
È una lunga spiaggia, profonda, con sabbia finissima,
aperta sull’oceano e le sue onde ampie e invitanti.
È il rilancio e il ringiovanimento fondati sull’industria
del godimento estetico: musica, moda, fotografia, cinema.
Il richiamo che ne alimenta la vivacità è il viale lungo
l’oceano, popolato di locali dove si danza e si fa festa dalla sera fino alla
mattina.
Vista di domenica, perfino il traffico sembra non pesare.
Viene da ricordare che il popolamento di queste terre non
nasce con l’arrivo degli europei. Qui c’erano popolazioni indigene, in larga
parte estinte per le sconosciute malattie portate dal vecchio continente.
L’unica tribù che riuscì a sopravvivere furono i
Seminole, che dall’attuale Georgia scesero in Florida e resistettero alle
guerre scatenate dal presidente Jackson, rifugiandosi nelle paludi, dove
sapevano sopravvivere alla malaria e alla febbre gialla. Sfinirono le truppe
confederali e ottennero di mantenere una loro indipendenza, non firmando mai
trattati di pace (e di sottomissione) al governo statunitense. Aprirono casinò
quando il gioco d’azzardo ancora era proibito e si arricchirono, arrivando a
diventare proprietari e gestori del circuito degli Hard Rock Cafè, con gli
spettacoli e le sale da gioco che ancora ne fanno un gruppo privilegiato.
Tornando alla città come la vediamo, resta l’esagerazione
dei grattacieli, come l’insistenza sul consumo esasperato e la non superata
voglia di bevande gassate e ghiacciate e di cibo ipercalorico.
Lontano dalle nostre inclinazioni.
Nel viaggio cerchiamo l’emozione della natura, che qui
non vibra. O il respiro della storia, che qui è schiacciata sul presente e
sulla non sopita ossessione anticastrista della comunità degli esuli cubani.
Da domani, via verso altre isole caraibiche e mari dai mille
riflessi del blu.
4 marzo
Bahamas, Pearl Island – Inebriante
All’arrivo a Nassau le Bahamas ci presentano una città
graziosa. Appena fuori dal porto, oltre l’area shopping, strade ordinate e
basse casette.
Quando costeggiamo la riva della città, saliti su un
battello che ci porterà all’odierna destinazione, possiamo ammirare il profilo
delicato ed elegante delle residenze turistiche. Costruzioni dall’architettura
morbida, colori tenui a combattere il caldo, tetti dalle spiovenze discrete.
Su un lato l’imponente maxi-albergo, articolato su tre
grattacieli color corallo, due dei quali collegati da un corridoio sospeso, non
turba il paesaggio.
Nella rada stanno ancorati vari yacht di notevole
dimensione e tonnellaggio, a evidenziare la ricchezza di chi sceglie questa
méta per le proprie vacanze.
Un doppio ponte, su cui corrono le auto a corsie
alternate, conferma l’ordinata gestione del traffico cittadino.
Il battello solca acque stupende, in cui prevalgono toni
di turchese.
Intorno all’isola principale scorgiamo altri isolotti coperti
da vegetazione che arriva a lambire le rive.
Uno di essi è il sito assegnato alla nostra giornata di
relax caraibico.
Pearl Island è un’isola minuta e consacrata al turismo.
Estesa per poche centinaia di metri in lunghezza e meno
di cento metri in profondità, ospita sul versante rivolto a Nassau un faro che
sovrasta un rustico ristorantino, dove consumeremo il pranzo caraibico, spiagge
attrezzate a disposizione dei gitanti e infine un bar.
Dal faro la vista è un incanto. Su ogni lato il mare
invita ad ammirare la bellezza dei colori e delle placide onde.
Dopo aver mangiato il cibo speziato e dolce, ci
accomodiamo sui lettini disposti su uno spiazzo da cui si scende dolcemente a
una piccola spiaggia sabbiosa. La sabbia è finissima e chiara, le acque fresche
e limpide.
Il primo pomeriggio sarà ombreggiato da folte nubi che
porteranno anche un po’ di pioggerella. Più tardi il sole tornerà ad affermarsi
e i colori riprenderanno vigore, esplodendo la meraviglia tra cielo e mare.
Ogni angolo, tra palme e gazebo, prospettive del reef e
dell’oceano, invoglia a cercare inquadrature per foto suggestive.
Inebriante è l’aggettivo più adatto per rendere le
sensazioni che questo luogo sa dare.
Qui il relax è un dlizioso obbligo, baciati dal sole, dal
vento, dal profumo del sale.
A testimoniare che i turisti vi arrivano da ogni angolo
del mondo, un palo sostiene sottili cartelli di legno che indicano le distanze
di significative località. Nassau dista appena 8 km, New York 1768, Stoccarda
7694, Miami 296, Toronto 2067, per Roma l’iscrizione è ormai scrostata.
S’è fatta l’ora del rientro.
Con un pizzico di rammarico, torniamo al battello, dove
ancora godremo lo schiaffo del vento sulle onde, mentre il sole inizia a
scendere.
Più tardi, mentre la nave sta salpando, il disco
rosso-arancio offrirà lo spettacolo del tramonto tropicale.
Quanto son belle le Bahamas!
6 marzo
Repubblica Dominicana – Si va per mare
La Repubblica Dominicana, sul suo versante
settentrionale, ci accoglie spalancando le nubi un attimo dopo l’alba e
offrendo l’ascesa del disco giallo e imperioso che illumina il mare, tingendolo
d’un impasto tra banana e vermiglio.
Approdiamo ad Amber Cove, piccolo porto creato da pochi
anni in una località deliziosa dove il turismo è leggero e ricercato.
L’escursione di oggi sarà in mare, su un catamarano.
Il viaggio in bus verso Playa Dorada ci mostra un Paese
operoso e ancora povero.
Nella Repubblica Dominicana la vegetazione è fitta e
varia, colorata ed estesa dalle alture alla costa. Il bosco vi diventa subito
foresta e le aree brulle sono risultato del disboscamento.
Puerto Plata, la città che attraversiamo, è viva e già un
po’ caotica, con molti negozi di vicinato accanto a qualche centro commerciale,
le scuole, il tribunale.
Playa Dorada è zona cui si accede tramite ingressi
sorvegliati, fitta di resort e con un grande green per il golf.
Ci imbarchiamo su un vivace natante. Non c’è molo e
saliamo direttamente dall’acqua, con le gambe a bagno.
L’escursione sarà divertente.
Il mare ci accoglie stupendo: limpido, seducente nei suoi
riflessi turchese ed azzurro, lievemente increspato.
Non riusciremo a vedere i delfini, ma le trasparenze
della superficie marina, aperte su fondali poco profondi, ci permetteranno di
cogliere i guizzi di pesci dalle fogge e pigmentazioni diverse.
La traversata tra le onde e sotto il sole caraibico è
avvincente e cattura la nostra attenzione sullo spettacolo dei colori che
cambiano col vento e nel trascorrere delle ore.
Si mangia sul natante, ancorati in una baia di sogno.
In questo panorama da favola anche il cibo sembra più
buono.
Dopo il pasto non si lesina il punch di cola e ruhm, a
mettere allegria.
Si apre la vela e inizia il giro di ritorno.
I ragazzi dell’equipaggio, gentili e simpatici,
improvvisano una danza sulla plancia del catamarano. Il più robusto ci stupisce
con il suo travestimento da Gloria Gaynor, mentre risuonano le note di I will survive.
Si ride, si balla e si ammira l’elastica agilità di
Palito e Nicole, scatenati nella Macarena a saltellare sui bordi della scaletta
per la discesa.
Infine si deve correre al bus e raggiungere la nave, salendo
appena in tempo per riprendere la rotta verso un’altra isola.
Siamo carichi di sale, di sole, di gioia, con gli occhi e
il cuore sazi di meraviglie e pace.
Amare il mondo ed esserne felici, sapendo che queste bellezze dovranno essere difese contro la voracità del mercantilismo e il mutamento climatico che incombe.
7 marzo
Isole Vergini Britanniche – Virgin Gorda, aspra e
affascinante
Virando a Sud, lasciata Hispaniola e il suo dolce
paesaggio di verde affacciato sull’azzurro, le Antille diventano piccole isole
di roccia con bassa vegetazione che si alzano nel mare.
Ci fermiamo poco nelle Isole Vergini Britanniche, facendo
scalo a Tortola.
Qui ci salutano le sule, che volano quasi a sfiorare la
nostra nave, impegnata in manovra d’attracco.
Presto ci imbarchiamo per raggiungere Virgin Gorda, più
minuta e selvaggia, a racchiudere scorci di insospettabile bellezza.
Una natura aspra, poco amichevole per l’uomo, ma che
offre visioni mozzafiato, con sentieri che si snodano tra pietre imponenti,
cacti e altre piante grasse (agave, aloe?), fiori coloratissimi nel rosso e nel
giallo, costeggiando dirupi.
La discesa si chiude a Devil’s Bay, piccola baia dalle
acque cristalline che si insinuano tra scogli levigati e multiformi, subito
dopo una minuscola piscina costretta in un anfratto che viene enfaticamente definito
grotta. La linea irregolare e discontinua delle formazioni naturali regala
viste suggestive, tra ombre e improvvise aperture alla luce del sole.
Sul vicino versante troviamo una spiaggia più
tradizionale, denominata The Bath. Massi giganteschi movimentano il paesaggio e
le acque color dello smeraldo chiamano ad accogliere i turisti.
Purtroppo il tempo proposto è breve e si deve rientrare.
Del resto, alle quattro del pomeriggio i servizi della spiaggia chiudono e gli
inservienti sono assai rigidi. L’impressione è che il turismo locale sia ricco
e che chi vi lavora non sia troppo accomodante verso gli ospiti, tanto che perfino
lo Shopping Center dell’area portuale chiude assai presto, come ci accorgeremo
tra poco.
La gita si conclude con un punch ruhm prima di risalire
sul bus. E qualche compagno di viaggio sembra non reggerlo bene, scambiando
l’allegria per sguaiatezza.
Il tempo di qualche foto, poi la delusione dei mancati acquisti e di nuovo la nave salpa.
8 marzo
St. Marteen – Un gioiello abusato e forse perduto
St. Marteen è una piccola isola antillana divisa tra
Olanda e Francia in base a un trattato che viene vantato come il più antico tra
quelli che decisero le spartizioni delle colonie tra gli Stati europei.
Fu Colombo a scoprirla, ma gli spagnoli, per cui
l’esploratore genovese conduceva le sue spedizioni, lasciarono presto l’isola,
dove la maggiore ricchezza, costituita dall’industria del sale, si andava
esaurendo.
Nel secolo scorso l’isola iniziò a diventare ambita meta
per vacanze al sole e al mare, facendo del turismo una fiorente industria.
A dimostrare la prevalenza del turismo nordamericano,
tanto nella zona olandese che in quella francese, tutti gli esercizi
commerciali recano scritte e indicazioni in lingua inglese. L’orografia di St.
Marteen presenta una successione di bassi monti che si alternano tra le coste.
La parte olandese è ordinata e mostra costruzioni distribuite con discreta grazia
lungo le colline. Al contrario, quella francese è densamente urbanizzata, con
case basse e poco eleganti.
La capitale dell’area francese, Marigot, è una città che
non offre particolari attrazioni, tutta proiettata intorno al porto, che si
apre verso Simpson Bay, un’ampia baia fittamente popolata di imbarcazioni.
L’odierna escursione è un flop clamoroso. Si attraversa
l’isola sull’unica strada centrale, intasata di traffico e soggetta a lunghe
soste per consentire il transito delle maggiori imbarcazioni in uscita dalla
baia che impongono l’alzata del ponte levatoio.
Unica nota di spicco è una zona collinare nella quale
grandi e colorate iguane prendono il sole sui rami di bassi alberi,
mimetizzandosi tra il fogliame.
Ci conducono a Marigot, senza alcun indirizzo verso
luoghi significativi (ammesso ve ne siano) e con l’unico sbocco di un mercatino
disordinato, con bancarelle che espongono le stesse merci (ai medesimi prezzi)
che si trovano nei duty free a ridosso del molo da crociera, spacciando per
artigianato ciò che è merce standardizzata per il business dei souvenir
dozzinali.
La crociera nella baia altro non è che un lento giro di
quaranta minuti in una distesa di barche che non colpiscono per varietà e
bellezza, anche perché, se si volesse cercare l’eccellenza nautica, abbiamo in
Italia cantieri e fiere che espongono natanti ben più notevoli di quelli
ancorati a St. Marteen.
L’attitudine a preferire l’ostentazione della ricchezza
alle meraviglie della natura, del resto, è bene simboleggiata dal vanto della
spiaggia di Maho Beach, reclamizzata per l’ebrezza di vedersi volare gli aerei
in atterraggio tanto vicini che sembra di toccarli: invece del piacere del
canto delle onde e del profumo del mare, si preferisce il brivido del rombo dei
reattori e delle scariche del gas di propulsione! Che tristezza!
Nel noioso ritorno in bus, la caduta di stile della gita
si svela senza pudicizia quando l’audioguida impiega oltre la metà
dell’esposizione in una insulsa propaganda delle merci di St. Marteen, dai
formaggi francesi (!) alla gioielleria venduta al netto dell’imposta, perché
l’isola è porto franco.
Può darsi che l’infelice escursione sia dovuta alla cattiva scelta del tour operator locale, ma l’impressione che suscita quest’isola è quella di una delle tante meraviglie caraibiche che, anziché valorizzare e coltivare la bellezza naturalistica, ahimè, l’abbia forzata, pompando il turismo e l’inurbamento oltre i limiti della salvaguardia dell’ambiente. Non solo non credo che a St. Marteen si viva come in paradiso (contrariamente alle affermazioni trionfalistiche dell’audioguida), ma anche il godimento della vacanza non raggiunge qui le vette delle altre perle di questo incantevole mare che abbiamo incontrato nella nostra lunga vacanza.
9 marzo
Antigua – Felicità nel vento sulle onde
Spiace essere rimasti in questo splendido arcipelago per
poche ore.
Abbiamo ammirato e goduto del paesaggio delle sue isole,
del suo mare dai riflessi ammalianti soltanto da lontano, su un catamarano
lanciato a cavalcare le onde ballerine e veementi.
Tutto s’è risolto in questa emozionante e coinvolgente
esperienza. Bellissima, tonificante, ma troppo poco per Antigua, che ci pare
offrire davvero molto e vorremo ritrovare in una prossima occasione.
Saliamo a bordo del catamarano di mattina presto.
Torneremo alla nave giusto poco prima della partenza.
Sarà l’escursione più entusiasmante del nostro viaggio.
Adrenalinica, spumeggiante, coinvolgente: difficile darne l’impressione con la
valenza semantica degli aggettivi.
Viene in mente, per definirla, il titolo di un bel film
di Johnatan Demme: Something wild, virato in italiano in Qualcosa di
travolgente: sono adatte entrambe le versioni.
Quando si naviga con la faccia rivolta verso il vento, ci
si tiene ai corrimani delle sponde per resistere all’urto del balzo contro le
onde schiumanti e indomite, si è travolti dall’emozione di un rapporto vero con
il mare, la sua forza, il suo profumo selvaggio e avvolgente.
L’impeto sibilante carico di sale ti percuote le nari ed
entra con la sua dolce violenza direttamente nei polmoni. Gli spruzzi freschi
si frangono sulla tolda e bagnano la pelle arroventata dal sole.
Un paradisiaco abbraccio di Nettuno, bonariamente
infingardo ad avvertirti di non sfidare la sua collera quando monterà.
Forse per la prima volta, comprendo cosa sia vivere il
mare, andando al largo e gettando a riva la paura.
Insieme a sensazioni indimenticabili di pura fisicità,
l’animo si delizia di poesia scoprendo la successione delle sfumature sul mare,
dal più chiaro turchese al più profondo cobalto, passando per le mille tonalità
disegnate dallo zigzagare schiumante delle onde, dal passaggio veloce delle
nubi, dall’alternarsi dei fondali e dell’infittirsi delle alghe.
Segue la pausa a Green Island, con la gioia di una
piccola spiaggia dalla sabbia fina e morbida e dalle acque fresche e
limpidissime.
Il bagno è puro piacere e il sole è sempre più caldo, ma
non lo soffriamo grazie alla brezza che ne mitiga l’attacco.
Un’altra meraviglia è rimanere immobili con i piedi
nell’acqua, a rimirare il lento nuotare di piccoli pesciolini: argentati,
azzurri con la pinna gialla o striati in giallo e nero, mentre altri,
cortissimi e neri, guizzano a nascondersi sotto le grandi pietre a pelo della
superfice marina.
È l’ora di gustare il pasto caraibico preparato con cura
dai nostri accompagnatori. Prelibato il pollo speziato alla maniera caraibica,
buono tutto il resto. L’ambiente di sogno concilia l’appetito.
Più tardi, nuovamente navigando spediti intorno alle
insenature, sorbiremo anche il ruhm, ad allietare ancor più questa gita
indimenticabile.
Ci resterà nel cuore e ci farà nostalgia il mare di
Antigua, con la voglia di ritrovarlo e di conoscere meglio anche le sue terre.
In conclusione, merita rimarcare la professionalità
simpatica e attenta del team della compagnia Excellence, i giovani che hanno
gestito il catamarano e l’intera escursione con l’allegria e la maestria che
l’anno resa unica e formidabile-
Oh, si! I love Antigua!
16 marzo
Santa Cruz de Tenerife – Dal mare a centro città
Complici varie circostanze, abbiamo scelto di fare una
visita non organizzata nella cittadina, senza addentrarci nell’isola di
Tenerife.
L’abitato di Santa Cruz è facilmente raggiungibile dal
porto con una breve passeggiata.
La città offre alcuni monumenti di interesse, specie
sulla piazza rivolta al mare.
Da lì si può risalire una lunga direttrice pedonale, con
prevalenza di costruzioni moderne e alcune sopravvivenze di edilizia coloniale,
talora quasi barocca.
Calle Castillo è una via dedicata allo shopping, piena di
negozi di abbigliamento, accessori, gioielleria, articoli sportivi e souvenir.
L’IVA ribassata delle Canarie sollecita gli acquisti dei turisti e tra la folla
si vedono numerosi di essi con borse che recano i marchi degli esercizi di
vendita.
Questo corso urbano, per posizione, struttura e
caratteristiche, ricorda la via Toledo di Napoli. Fatti salvi minor eleganza e
respiro storico, il paragone regge.
L’angolo più suggestivo di Santa Cruz si incontra
all’auditorium.
Un progetto di Santiago Calatrava ultimato nel nuovo
secolo, che rappresenta uno dei capolavori dell’architettura contemporanea.
Il teatro si affaccia verso il mare con la sua sagoma
vagamente futurista, con la grande volta aperta e lanciata verso il cielo e le
scalinate che ne attraversano una galleria aperta, con vista sia verso l’oceano
che verso l’interno.
Il mare è seducente come sa esserlo l’Atlantico con i suoi
riflessi scuri e maestosi.
La proiezione verso l’interno introduce un piccolo parco
che contiene una minuscola baia circondata da un muretto di pietre, dov’è esposto
un geometrico monumento di Cesar Manrique, circondato da aiuole fiorite e
ordinate.
Rientriamo nel centro storico percorrendo il viale
assolato.
La giornata ci ha offerto temperature primaverili e luce
stupenda, che fa brillare l’azzurro dal cielo al mare.
Festeggio il mio compleanno, per la prima volta fuori
dall’Europa, pranzando con Anna in un ristorante indiano e godendo del sapore
forte e intrigante delle salse.
Anche girare per conto nostro è un bel modo di scoprire parti di mondo.
17 marzo
Lanzarote – La meraviglia di fiori e piante
Lanzarote è una piccola isola delle Canarie
caratterizzata dalla natura vulcanica.
Vi si trovano oltre cento vulcani, non più in attività.
Il più alto tra essi ha la sommità poco oltre i 600 metri, così il nostro tour
è un saliscendi tra basse elevazioni, in prevalenza ormai arrotondate e con
fianchi brulli o coperti da bassa vegetazione.
La terra naturalmente concimata dai residui lavici è
propizia per lo sviluppo delle specie vegetali.
Sebbene io non sia esperto né appassionato di botanica,
ho ammirato sorpreso e incantato i giochi dei colori tra foglie e fiori,
intorno a palmeti e altri alberi cui non so dare nome.
Le palme sono per la maggior parte basse e con foglie più
scure di quelle cui siamo abituati nei Paesi tropicali, ma non mancano quelle
che si lanciano verso il cielo.
L’isola presenta paesaggi aspri, il vento batte possente
e freddo, facendo rimpiangere il clima caldo che abbiamo lasciato da pochi
giorni.
Dall’alto del belvedere, nella mattinata battuta dal
vento che scuote la foschia a pelo d’acqua, il paesaggio assume tinte e contorni quasi lunari.
A qualificare la gita è l’arrivo a Jamos de Agua. Si
tratta di una grotta che esce dalle profondità vulcaniche, famosa perché in un
laghetto affiorante vivono minuscoli granchi bianchi e ciechi, il cui habitat
naturale sono le profondità oceaniche e che soltanto qui si possono vedere
sopra il livello del mare, nell’oscurità poco illuminata dal sole che si
insinua tra le fratture delle rocce.
L’opera dell’uomo, sulla base dell’architettura
progettata dal poliedrico e maggior artista di Lanzarote, ha reso Jamos de Agua
un piccolo gioiello.
La grotta è suggestiva e sale verso una piscina
ornamentale dalle acque celesti che brillano in contrasto al buio delle viscere
terrestri e al bianco della vasca e dei bordi. Tutto intorno è un rifulgere di
colori forti o delicati di ogni varietà di fiori e foglie, di tronchi nodosi o
lisci, scuri e ruvidi o levigati e algidi.
Poi, a ulteriormente affascinare, c’è un auditorium
scavato nell’anfratto, con le sedute a semicerchio che scendono verso il
palcoscenico, sotto pareti e volta di pietra lavica che negano ogni eco, con
effetto di fonoassorbenza. In alto, sotto il lucernario costituito da una
breccia nella volta, sta una sospensione di linee e frecce, frutto dell’estro
dell’artista.
Nuovamente all’aperto, inseguiamo scorci e prospettive
che donano gli sfondi del cielo e del mare dietro aiuole e alberi.
Materiale per scatenare la fantasia alla ricerca di
fotografie d’effetto.
L’alternarsi dei toni di luce nel rapido scorrere delle
nuvole sotto l’impeto del vento rende il gioco ancor più seducente.
Il vento, che alle Canarie è protagonista e oggi si fa
sentire, con le frecce del suo alito, che ci pare gelido.
La nave rolla e vibra. Partiamo.
Addio, Lanzarote, terra di pale eoliche e impianti di
desalinizzazione.
Un’isola che non è in sintonia con le nostre corde, troppo aspra e fredda, ma di cui ricorderemo la perla che l’inventiva del suo geniale figlio ha saputo creare. Quel Cesar Manrique cui va anche riconosciuto il gran merito di aver sostenuto e vinto la battaglia per impedire che sull’isola venissero eretti cartelloni pubblicitari, al fine di preservare la purezza del paesaggio. Un esempio che sarebbe bello venisse seguito nei molti luoghi che, nel mondo, la natura e la storia rende indimenticabili.
19 marzo
Malaga – Varietà di stili
Malaga riuscirà ad affascinarsi, anche se l’approdo del
mattino ci lasciò perplessi.
Il porto ci presenta la visione di aree merci e lunghi
moli, che si aprono davanti a palazzi moderni, alti e massicci a fronteggiare
il mare.
Forse per il cielo nuvoloso, ancora non sappiamo intuire
la parte antica e artistica.
Poi le nubi si ritireranno, offrendoci una volta azzurra
ad accompagnare il tour nella città storica.
Entro un raggio ristretto troveremo architetture che si
sono succedute e intrecciate, di pari passo con l’evoluzione della storia.
Dapprima il bus ci porta sulla collina lungo una strada
erta, che sfida la perizia del conducente.
Arriviamo a Gibralfaro, “roccia di luce”, nell’antico
significato fenicio, antica fortezza che domina la città e guarda sulla baia. I
folti boschi che coprono le pendici impediscono di vedere verso la zona storica
e la visione dell’insieme di Malaga non esprime le bellezze che ci attendono.
Da lì scendiamo a visitare l’Alcazaba, che fu dimora dei
signori arabi prima della vittoria dei cattolici che portò l’area sotto il
dominio dei re spagnoli. La costruzione è ancora tipicamente moresca, nella
pianta e nelle decorazioni, con cortili nei quali non può mancare lo scorrere
dell’acqua, a ricordare l’attenzione e la cura che vi prestava un popolo costretto
ad affrontare il deserto. Notiamo le volte, i motivi matematici degli intarsi e
il delicato fluire delle greche che decorano gli archi, sagomandone il profilo.
Il giardino che circonda l’Alcazaba raccoglie alberi e
fiori che carezzano di profumo, dona i colori che variano dal rosso intenso dei
garofani al fioco lavanda dei gladioli, espone l’eleganza dei tronchi di
eucalipto, l’austero fogliame dei pini, l’ampio ventaglio delle palme, qualche
esplosione di piante grasse.
Al termine della discesa, percorriamo a piedi il centro,
un’ampia zona pedonale che si snoda tra vie pulite e ancora capaci di ricordare
il passato della città, con palazzi dalle facciate barocche e moresche. La Plaza
de la Merced, dove nacque Pablo Picasso, con al centro un obelisco alto e
squadrato, dedicato ai morti della ribellione antimonarchica, ospita vari
esercizi e il modernissimo Starbuck, dove le consumazioni sono piuttosto care,
allineate ai prezzi del circuito in tutto il mondo, sta proprio alle spalle
della statua del poeta, seduto immobile su una panchina, disponibile a farsi
fotografare con ogni turista di passaggio.
Finalmente giungiamo alla maestosa Cattedrale di Nostra
Signora dell’Incarnazione, che concentra, nella sua architettura e nel suo
interno, tutti gli stili che qui hanno creato arte.
I successivi interventi, peraltro, non sono giunti a
conclusione, tanto che viene chiamata “la Manquita” (la Monca)
La croce davanti all’ingresso è il marchio della vittoria
della cristianità nella guerra per la conquista di Malaga. Un’esplicita
affermazione del primato spagnolo e castigliano per non consentire l’ambiguità nella
simbologia religiosa, nonostante il campanile sia l’evidente trasformazione di
una torre di impronta chiaramente araba.
L’interno è denso di arte della cristianità, dedicata a
Cristo, alla Madonna e ai Santi, nella progressione delle navate.
Le colonne e le volte si alzano solenni sopra i corridoi,
mentre ogni cappella mostra quadri coordinati intorno a episodi di vita e
miracoli del culto cristiano.
Impressiona il grande organo, con le sue numerose e
possenti canne, che sanno echeggiare in un’acustica ben ricavata negli spazi
della cattedrale.
Notevole il coro, costruito a partire dalla fine del XVI
secolo con stalli e statue in legni pregiati (mogano, cedro e granadillo).
C’è ancora qualche minuto per ammirare palazzi liberty
sulla prospettiva che dal centro punta al viale a mare.
Quando rientriamo sulla nave, la sagoma del campanile e
delle alte cupole della cattedrale ci fanno guardare verso la zona storica che
abbiamo visitato.
Sarà un ricordo dolce e forte di questo pezzo di Andalusia.
21 marzo
Marsiglia – Facciate francesi e vento dal nord
Marsiglia si presenta come una lunga striscia di moli
portuali. Attracchiamo al nuovo porto, dietro la zona commerciale.
La città è relativamente lontana e per raggiungerla è
necessario un transfer per superare la grigia area dei magazzini.
Il cielo è terso e azzurro e si rispecchia in un mare
intenso, color topazio. La giornata è fredda, perché la costa è battuta dal
vento che scende da nord. Questo renderà la nostra gita più breve, perché il
clima non invoglia a lunghe passeggiate.
Prendiamo il trenino turistico, che si arrampica verso
Notre Dame de la Garde.
La cattedrale si presenta orgogliosa sulla cima della
collina, con il campanile sovrastato dalla Madonna dorata, che risplende, là in
alto.
L’architettura della chiesa è grandiosa, l’interno meno
notevole, ma i mosaici sulle volte disegnano linee e colori affascinanti.
Dallo spiazzo sottostante possiamo vedere la città a 360
gradi. L’ampio golfo circonda la città e le sue appendici portuali.
Tornati in pianura, dinanzi al vecchio porto, iniziamo a
percepire il respiro francese di Marsiglia.
Lo si coglie nelle facciate dei palazzi di primo
Novecento, con le pareti dai colori delicati e gli stretti e lunghi balconi in
ferro, sagomati come i francesi amano averli.
La sera, il sole cala lentamente, allungando la scia dei
suoi raggi ormai d’arancio sulla superficie del mare, con un effetto scenico
che incanta.
Quando si fa buio, il plenilunio di primavera regala
l’ennesima emozione, rifulgendo dal cielo al mare, con riflessi d’argento.
Il transatlantico salpa.
Domani ci sveglieremo in Italia.
È un mese esatto da quando la lasciammo.
22 marzo
Savona – Il mare della Liguria
La città di Savona non si segnala per particolari pregi
artistici o storici.
Se ci si giunge, come noi, da una crociera che ci portò
ai Caraibi e, più recentemente, a Malaga, il confronto non sarà generoso.
Tuttavia, questa cittadina gode di un clima favorevole,
che attrae nella sua provincia il flusso turistico in arrivo da tutto il
Piemonte e, in parte, dalla Lombardia.
Fortuna vuole che Savona ci riceva nello splendore del
cielo e del mare, in una giornata ventosa ma, anche per questo, carica di luce
che rende più vividi i colori.
Dal porto la passeggiata verso il centro si snoda per la
via Paleocapa, porticata e con palazzi che presentano graziosi mosaici e
balconi sagomati. Il teatro Chiabrera e il palazzo municipale sono il fulcro di
piazzette simpatiche, mentre il duomo sta a lato della via Sisto. La Cattedrale
dell’Assunta contiene una serie di cappelle laterali tematiche, delle quali
apprezzo particolarmente quella dedicata a Nostra Signora della Misericordia,
con un altare dorato circondato da sculture marmoree. Di fianco, oltre il
cortile, sta l’ingresso della cappella Sistina, così chiamata in onore di papa
Sisto IV.
L’emozione più grande la troviamo nella passeggiata a
mare, con il lungo viale che scende da Palazzo Priamar e si snoda fino a lato
del centro cittadino.
Come in tutta la Liguria, il litorale sabbioso è stretto,
così che il nastro pedonale e ciclabile si trova proprio a ridosso della
distesa, dove le onde muovono candida schiuma a infrangersi lente sulla
battigia e portano profumi e suoni di serenità e infinito.
Il tono dell’azzurro è meraviglioso, fino a fondere cielo
e mare sulla linea dell’orizzonte.
Si può dimenticare la città, con il traffico della
provinciale che la attraversa poco più in là, respirare a pieni polmoni l’aria
salmastra e iodata.
Il bello della Liguria, che i suoi paesini ripropongono in mille sfaccettature, dalla riviera di ponente a quella di levante, sta in questi panorami.
23 marzo
Napoli – Passeggiando leggeri
Napoli è città di cultura antica, dove l’intelligenza
vivace dei suoi figli tinge d’ironia la modernità, mantenendola umana.
Torniamo volentieri in questa città che amiamo. Forse,
non la capiremo mai per davvero.
Ci conquistò, anche lontani, la melopea mediterranea che
nacque nella fucina di Napoli Centrale e trovò in Pino Daniele la sua massima
espressione. Ci mosse a commossa ammirazione la comicità sottile e pungente di
Massimo Troisi.
Però Napoli è molto di più.
Lo si vede passeggiando per le sue vie, incontrando la
fantasia delle insegne dei negozi, ammirando la disinvolta capacità dei
napoletani di vestire con naturale eleganza l’accostamento di colori e
accessori che altrove parrebbero stonati.
Dal porto si può salire velocemente a piedi dietro al Castel
Nuovo.
La nostra breve visita, non avendo tempo per riaccostarci
ai luoghi che conservano ed espongono sublimi bellezze artistiche, si dipana
tra via Toledo e via Chiaia, respirando l’atmosfera del sabato pomeriggio nella
passeggiata partenopea.
Caffè al Gambrinus, a lato della piazza del Plebiscito,
poi un gigantesco cono da Infante, maestro della gelateria.
Soddisfatto il palato, possiamo ammirare palazzi e vie,
orecchiare le simpatiche cadenze della parlata locale, guardare la folla che
sciama senza fretta.
Vorremmo visitare la basilica di San Francesco, ma piazza
del Plebiscito è occupata per metà, proprio sul lato del tempio, da una
esposizione dell’Esercito Italiano, che ne deturpa il profilo. Spiace sia stato
scelto proprio questo luogo per l’iniziativa. Come una poesia strappata.
Rinunciamo, rinviando alla prossima occasione.
Anche il giardino del Molosiglio è chiuso per lavori e
non possiamo rinnovare l’attraversamento tra i suoi alberi frondosi.
Neppure ci accorgiamo dei chilometri che iniziano a
pesare sulle nostre gambe. Non ci si stufa mai di muoversi dentro queste
contrade che evocano sole e musica.
Prima di ritornare alla nave, perché la partenza incombe,
volgiamo lo sguardo al Vesuvio, simbolo del fuoco che anima queste terre,
inquieto e irriverente, coraggioso e affascinante, millenario e attuale.
Dalla tolda, in attesa che i motori spingano il
transatlantico verso il largo, abbiamo il tempo di godere del tramonto dietro
il Maschio Angioino.
Silenziosamente, depositiamo il nostro “arrivederci” sui placidi flutti dal molo Berevello verso il cuore della città.
25 marzo
Bari – Visita alla città vecchia
Dal molo d’attracco della nave da crociera alla città
vecchia è una passeggiata di pochi minuti.
Per questo, è sconsigliabile accettare le offerte di tour
che sommergono gli ignari turisti in arrivo all’uscita del terminal portuale,
siano esse di trenini o risciò o altro. Non fanno risparmiare tempo né energie,
ma spillano denaro per un presunto avvicinamento ai luoghi di interesse e per
sommarie informazioni storico-culturali.
Nella città vecchia i poli d’attenzione sono raccolti in
un fazzoletto.
Per prima la cattedrale di San Nicola, di stile romanico,
edificata per raccogliere il corpo mortale del santo, che è tale sia per i
cattolici che per gli ortodossi. La chiesa, infatti, ospita riti di entrambe le
religioni. Imponente e austera, contiene il baldacchino di marmo più antico di
tutta la Puglia: un ciborio posto sull’altare centrale.
L’altra cattedrale, dedicata a San Sabino, è quasi
altrettanto antica e anch’essa di stile romanico, con l’icona della Madonna
dell’Odegitria, che da il nome alla piazza che ospita il tempio.
Il Castello Svevo ha il profilo squadrato e rude di una
fortezza romanica, ricostruito dagli Svevi, da cui deriva la sua denominazione.
Purtroppo le mura non sono in sicurezza e ne è preclusa la visita.
Comminare tra le strette vie della Bari vecchia è
scoprire un microcosmo di negozi e attività tradizionali, come quella –
celebrata dal turismo – delle signore che tirano a mano la pasta fatta in casa
per trarne, con abili movimenti di coltellini, le famose orecchiette pugliesi.
Ci colpisce in particolare una graziosa piazzetta, detta Largo Albicocca e
dedicata agli innamorati. D’obbligo un selfie per le coppie che fanno rivivere
ogni giorno il loro amore, come Anna e Giorgio.
Poco oltre il confine tra la Bari vecchia e la Bari nuova
abbiamo le vie eleganti con i negozi delle firme luxury, sotto palazzi tra i
quali sfilano belle sagome liberty. Da segnalare quelle di Palazzo Fizzarotti e
di Palazzo Mincuzzi.
Poco più centrale si può ammirare l’ingresso dell’Università
Aldo Moro, intitolata al tormentato leader che si interrogava e cercava nuovi
equilibri politici nel dopoguerra, fino a finire nel mirino spietato delle
Brigate Rosse.
La via Sparano si chiude nel piazzale Aldo Moro, di
fronte alla stazione centrale delle ferrovie, linda e ordinata.
Tornando verso la città vecchia, percorriamo viale
Cavour, con altre costruzioni liberty che conducono fino al Teatro Petruzzelli,
alle sedi della Banca d’Italia e della Camera di Commercio, e infine al Teatro
Margherita.
La nostra passeggiata si è conclusa e possiamo
riattraversare la città vecchia e poi tornare verso il porto.
Nelle orecchie ci risuona il tipico dialetto locale, con le sue simpatiche cantilene.
27 marzo
S’arriva a Venezia.
Si lascia il transatlantico.
Si conclude un’avventura.
Si spediscono i bagagli a casa e si tiene solo il
necessario. Perché a Venezia merita sempre trascorrere qualche giorno, specie
di marzo.
Rispetto alla crociera, tutta un’altra storia.
Magia delle calli e sinfonia dei musei.
Degna e splendida conclusione di una bellissima vacanza.