
Gli artisti sanno essere profetici. Evocativi, ma anche espressione del loro tempo.
Era il 1988. Franco Battiato, già affermato, elitario e misticamente passionale, cantava:
“Questo secolo ormai alla fine
saturo di parassiti senza dignità
mi spinge solo ad essere migliore
con più volontà.”
Siamo nel secolo seguente a quello che lui vedeva spegnersi nella tristezza, nell’ignavia, nella miope difesa di rendite di posizione.
Siamo, nel nostro Paese, all’ennesimo corto circuito tra le emergenze e l’incapacità di praticare politiche orientate al futuro.
Assistiamo, nel mondo, a una drammatica carenza di leadership, di visione, di progettualità.
Mentre la catastrofe climatica avanza e la guerra torna a insanguinare perfino l’Europa.
Resto convinto – e l’intreccio delle crisi economiche, sociali, geopolitiche, sanitarie e, in ultima analisi, culturali – che i tumultuosi eventi che hanno cambiato la faccia del mondo impongano l’adozione di nuovi paradigmi e l’elaborazione di nuove strategie di ampio respiro.
Non sarà possibile vincere le sfide senza ritorno di un pianeta che geme e rischia il tracollo ambientale e umano applicando le ricette del Ventesimo Secolo. Gli ideali che lo hanno animato sono stati travolti dal venir meno dei loro presupposti materiali e culturali.
Per questo la guida del necessario rilancio non può essere affidata a pretesi leader seduti sulle idee del passato. Che rischiano di lasciare il campo ad altri capipopolo votati all’oscurantismo, sopprimendo le libertà e i diritti civili.
Serve all’Italia (e al mondo) una rivoluzione dei modelli di produzione, di consumo, di distribuzione. Serve l’affermazione del primato dei beni comuni, dell’investimento sul futuro, della reimpostazione del rapporto tra umanità e natura in chiave di armonia e di crescita sostenibile.
La cosiddetta agenda Draghi era ed è una linea di difesa, utile ma insufficiente.
Soltanto misurando gli obiettivi sul lungo periodo possono davvero emergere le differenze tra le proposte: non promesse elettorali in gran parte illusorie, ma misure per collocare il contenimento delle emergenze in una prospettiva di economia circolare, di solidarietà comunitaria, di valorizzazione della creatività e del talento per la liberazione del valore anche esistenziale delle innovazioni nelle quali la tecnologia sia governata dai bisogni e dai tempi dell’umanità e non dall’obiettivo della massimizzazione dei profitti.
Non vedo partiti o movimenti che tentino risposte a questa domanda “alta” di politica.
Non trovo sedi per poterne davvero discutere.
E mi domando, nella disgregazione che ha frantumato classi sociali e tradizioni politiche collettive, lasciando spazio a richiami tribali e a nostalgie di chiusura localista e particolarista, se nascerà un fulcro di raccolta dei “senza rappresentanza”. Penso a chi vive ai margini della società (e che raramente partecipa al voto), ma soprattutto ai giovani, quelli che magari vanno all’estero per trovare sbocchi occupazionali confacenti alle loro aspirazioni.
Perché l’altra mia convinzione è che, se c’è una speranza per il futuro, essa riposi sull’assunzione di protagonismo delle generazioni che sono native digitali, per le quali i confini geografici sono labili, l’incontro tra diversità è una ricchezza e non fa paura.
I giovani, per riuscire a vivere la loro vita in una condizione di continua precarietà, hanno imparato a usare senza avere, a condividere tutto (fino, scandalosamente, agli spazzolini da denti), a cambiare casa, nazione, amici, lavoro. A rispettare la natura. A puntare alle emozioni prima che al guadagno.
Confesso: non li frequento (per ragioni anagrafiche e per condizione esistenziale), li osservo, con curiosità e ammirazione. Forse esagerando le aspettative.
C’è un protagonista che ricompare in un mio racconto e in due romanzi non ancora pubblicati che da voce alle mie ottimistiche proiezioni.
Il professor Coreglio, ormai in pensione, indica nelle generazioni nate dalla metà degli anni Ottanta il serbatoio della futura classe dirigente, perché esse vivono esperienze di socializzazione e di maturazione individuale e collettiva nel pieno del secolo corrente.
Dopo aver spiegato perché le filosofie politiche del Ventesimo Secolo si sono infrante sull’incompatibilità tra consumerismo dissipatorio e limite delle risorse, sottolinea come i giovani abbiano abbandonato il mito della proprietà in favore dell’accessibilità. Il loro governo, quando finalmente arriveranno a fondarlo, si caratterizzerà intorno all’obiettivo ideale dell’armonia: tra umanità e pianeta, tra identità sessuali diverse, tra nazioni, tra sviluppo economico e benessere esistenziale, tra progresso ed equità sociale.
Pecco di eccesso di ottimismo? Esorcizzo il dramma presente sognando un’utopia?
Forse.
I versi di Battiato che citai in premessa sono parte del testo di “E ti vengo a cercare”.
Nel 1981 il maestro catanese scrisse “Povera Patria”, amara constatazione del degrado morale e materiale di questo nostro travagliato Paese.
Concludeva: “La primavera intanto tarda ad arrivare”.
Ci ha lasciato versi e musica stupendi, per goderne la bellezza, ma anche per riflettere.
Per non perdere l’orizzonte del futuro.
E oggi cosa verrei a cercare?
La primavera che ancora spero arrivi sulle ali della gioventù che saprà fare suo il mondo, salvando sé stessa, i figli che verranno e anche noi che non riusciamo a uscire dalle gabbie di vecchie ideologie e di comportamenti inconciliabili con la sopravvivenza della Terra e dell’umanità.