
Un editore cui inviai il manoscritto del mio terzo romanzo mi rispose che il mio lavoro era “godibile, appassionante”, ma viziato da un linguaggio arcaico e da “nomi rococò”. Mi propose un editing “robusto” per superare questi difetti e rendere il romanzo “divertente e attuale”.
Ho rifiutato. Non per supponenza: so bene che ogni manoscritto necessita di revisione attenta, che un buon editing è anche assai formativo per l’autore, utile a farlo maturare e migliorare.
Ma la possibilità di narrare creazioni immaginative, di costruire una storia coerente e viva, è indissolubilmente legata alla personale espressione dell’autore.
Il mio stile necessita di progressi, ma non potrà non mantenere due tratti caratteristici.
L’uno è la ricerca della terminologia e della costruzione che diano chiarezza alla vicenda, che facciano vibrare la psicologia e i sentimenti dei protagonisti, che diano una rappresentazione quasi cinematografica delle scene.
Questo può somigliare a una letteratura dei tempi passati. Forse scavare tra i sinonimi, cercar gli aggettivi che colorano la trama, attardarsi nelle inquadrature di sfondo, può riuscire tedioso ai lettori che desiderano arrivare presto all’esito dell’azione.
Tuttavia, senza l’esplodere dei particolari, la storia avanzerebbe più esile, i personaggi si presenterebbero più opachi.
Non saprei scrivere con un linguaggio secco, tutto ritmo ad imitazione dei giochi elettronici tutti forgiati sullo scatto e la velocità.
Non obbedisco alle regole omologanti che piegano la narrativa di genere ad obbedire all’impoverimento del dizionario e le trame a proporre colpi di scena secondo cadenze da manuale.
Il secondo elemento tipico – e irrinunciabile – delle mie storie è l’uso di una nomenclatura volutamente eccentrica. I nomi propri che attribuisco agli interpreti affondano le radici nella mitologia anziché rifarsi alle icone americane. Talora poi – e qui entriamo nel gioco che fa ridere la mia penna – i cognomi sono evocativi, con un pizzico d’ironia. Con la nomenclatura mi diverto, convinto che un nome fuori dal comune resterà nella memoria del lettore (a condizione, ovviamente, che il personaggio gli abbia comunicato emozioni e l’abbia affascinato) più di un “Mario Rossi”.
Una delle domande più ricorrenti rivolte a uno scrittore lo interroga sugli autori che lo hanno ispirato. E la domanda si fa tanto più insistente in relazione al modo di scrivere (lo stile, appunto) piuttosto che ai temi.
Io non saprei indicare miei riferimenti stilistici. Mi emozionano i poeti ermetici e apprezzo i giallisti scandinavi. Potrei citare tanti autori, di epoche e generi diversi, ma di nessuno mi pare di seguire le orme.
Definire il mio personale stile è esercizio che lascio volentieri ai lettori cui piacerà farlo.
Nelle mie opere – che seguiterò a scrivere per il gusto di mettere in pagine ordinate le cavalcate della mia fantasia – resteranno, spero via via confortate da belle esperienze di editing condiviso, timbri cui sono legato: nomenclatura bizzarra, amore per la parola, note introspettive, istantanee ambientali, esposizione del mood delle figure in scena.
Soltanto con queste pennellate saprei offrire storie che propongo non per sfidare il lettore nell’indagine fino all’inseguimento del finale, ma come un viaggio di scoperta e di continuo rilancio dello sguardo oltre l’orizzonte. Dove l’epilogo è l’introduzione a nuove domande, alla possibilità di una nuova storia.