
Francis Ford Coppola ci ha offerto la versione per lui definitiva e migliore del suo capolavoro Apocalypse now.
Per tre ore il film scorre con il suo fluire lento, spezzato da improvvise e laceranti accelerazioni. Il cammino nell’orrore si alimenta di frasi secche, di un ambiente insieme magnifico e opprimente, di impulsi improvvisi e devastanti, di irragionevoli fughe dei ricordi del mondo ormai lontano e perduto.
Il montaggio è impeccabile, nulla pare casuale, non c’è ridondanza e l’apparente eccesso è coerente allo smarrimento di ogni vincolo morale.
Che l’opera cinematografica sia memorabile lo si comprende sin dalla prima geniale sequenza.
La musica ossessiva dei Doors avvince dietro il battito ritmico delle pale dell’elicottero per poi esplodere nell’attacco aereo, confuso nella polvere sollevata dai rotori durante l’atterraggio. La scena si dilata. The end, la fine, è l’inizio del lungo incubo. Le pale cambiano nella dissolvenza, divenendo quella del ventilatore a soffitto sulla testa del capitano Willard, nudo, sudato e già disperato nella sua stanza d’albergo a Saigon.
Un uomo segnato dalla guerra assurda nella quale vuole tornare attivo. La vigilia di un viaggio che lo porterà oltre le porte dell’inferno.
Nel cinema, l’incipit assume forza evocatrice ancor più che nei romanzi.
Dai primi minuti si coglie il capolavoro. Così è per 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, con la clava che diviene astronave sulle note di Strauss. Altrettanto per Manhattan di Allen, con il ponte in bianco e nero sottolineato dalla musica di Gershwin
Nel film di Coppola l’avvio è travolgente, capace di comunicare immediatamente quell’inconsueto connubio tra il ritmo lento e la narrazione serrata che terrà viva la tensione per tutte le tre ore della proiezione.
La cura delle scene è magistrale.
L’alternanza tra i primi piani sui protagonisti, che dialogano senza comprendersi, e le scene in campo lungo, spesso trasformate in carrellate e zoom che esaltano la frenesia delle azioni belliche e degli scempi, mantiene alta e continua la carica drammatica.
Il regista domina la costruzione narrativa, rendendo gli attori docili strumenti della sua personale espressione. Martin Sheen, pure bravissimo nel ruolo, è ostaggio del racconto, mai avendo il permesso di prendersi la centralità delle scene.
Perfino Marlon Brando, la cui presenza è solita relegare sul fondo chi e ciò che gli sta attorno, qui è un pallido simulacro, perché nel suo personaggio contano più le parole recitate che la gestualità. Il pathos del simbolo supera, nel comandante Kurtz di Coppola, la psicologia dell’uomo.
Notevoli sono le inquadrature dell’incarnazione del male (che tale è non per colpe proprie, ma per l’esperienza diabolica che ha attraversato). Dal basso, con giochi di ombre che quasi mai lasciano vedere tutto il viso, perché le smorfie sono meno importanti del buio ondivago che parzialmente le cela.
Pochi anni dopo, Ridley Scott giostrò in modo analogo la sequenza finale di Blade Runner.
Nei due episodi, infatti, vive tutta la tragedia dell’assenza di umanità.
Nel comandante Kurtz la perdita dell’ancoraggio alla natura umana, nell’androide Roy Batty l’impossibilità di raggiungerla.
Sofferenze di matrice diversa, che, per entrambi, spingono a cercare la fine non per redimersi ma per andarsene dal mondo e da sé.
Apocalypse now, come lo vediamo nella versione scelta dal regista, non è un film di guerra. Sfugge al confinamento in un genere, perché è un’opera che interroga sull’umano e sugli abissi che da esso possono precipitare nell’orrore.
Non è un film contro la guerra o contro l’imperialismo. Rappresenta la perdita del senso umano (e della ragione, prima o con esso) dentro quella guerra “per il nulla” (come sostiene fuggevolmente un colono francese arido e rancoroso, in un incontro con il protagonista).
Annuncia, forse neppure intenzionalmente, i traumi emotivi irrecuperabili che ogni reduce dalle giungle vietnamite porterà dentro di sé al rientro in patria.
L’inferno in cui il capitano Willard si immerge non è, come quello dantesco, formato da gironi, ma piuttosto un continuum di orrore declinato in ogni passaggio.
Ogni attore è solo nella desolazione della sua mente e nel vuoto della sua anima.
Tanto che il capitano Willard realizzerà la missione assegnata ben più per assecondare il desiderio di estrema fine del comandante Kurtz che per obbedienza al comando statunitense, cui neppure risponde alla radio.
E, di nuovo, la voce di Jim Morrison risuona a cantare The end.
L’orrore avvolge, nella circolarità del film e del senso dissennato.