La tre giorni dedicata a visitare l’archeologia Maya si conclude, come in crescendo rossiniano, con il sito di Chichén Itzà, che ne è la massima espressione.
Nel viaggio d’avvicinamento, la nostra guida, Carlos, messicano di Merida con ascendenti indigeni, ci racconta scorci di storia e di cultura, stupendoci con le conoscenze astronomiche del popolo Maya, a fondare la loro complessa numerologia: una matematica simbolica capace di contare fino quasi all’infinito.
Ma prima, una curiosità.
“Chicle”, il nome che universalmente indica la gomma da masticare (il chewing gum degli anglofoni) è temine maya. Nella lingua di questo antico popolo “Chi” significa “bocca” e “cle” sta per “masticare”. I maya usavano una gomma ricavata da un albero, simile al caucciù, per ripulire i denti dopo i pasti. “Chicle”, appunto. Un vago richiamo onomatopeico, come altri loro termini, quali il nome del dio della pioggia, chiamato “Chaka”.
Va ricordato che, come molti popoli antichi, i Maya erano politeisti, o meglio panteisti, cioè credevano manifestazioni divine fenomeni e parti della natura: il sole, la luna, la pioggia, il fuoco, il vento, il giaguaro, il serpente, tra i principali.
Il calendario maya era sdoppiato. C’era quello civile (Haab) e quello rituale (Tzolkin). Il primo riusciva a centrare i 365 giorni della rivoluzione solare, il secondo si ispirava ai cicli lunari e si chiudeva sui 260 giorni (13 cicli) corrispondenti alla fase dalla fecondazione alla nascita.
Per l’identificazione delle date era preso a base un inizio, posto in un giorno (13 agosto 3.113 A.C.) che segnava l’inizio del loro mondo. A partire da esso, contando lo scorrere del tempo in giorni, i due calendari si affiancano, formando secoli pari a 52 dei nostri anni e riuscendo, con grande precisione, a cogliere la successione delle rivoluzioni lunare e terrestre.
Per misurare giorni, anni ed ere, la loro matematica usa simboli (punti, linee, geroglifici) che, mediante ordinate successioni di segni, sa individuare precisamente ogni giorno su un arco temporale di 190.000 anni.
Cercando di afferrare queste rivelazioni, entriamo nel sito.
Chichén Itzà fu il principale insediamento Maya, centro del commercio di quel popolo, forte, al suo apogeo, di 50.000 abitanti.
La deforestazione da loro stessi scatenata per estrarre il liquido che mutavano in gomme e poltiglie commestibili come in collante per stucco, portò al decadimento della città, che era quasi deserta all’arrivo degli invasori spagnoli.
Nel frattempo, i Maya erano stati sconfitti e dominati dai Toltechi, che scesero dall’altopiano centrale messicano.
Così la costruzione più imponente, scoperta alla fine dell’Ottocento, è una piramide dall’architettura che risente dell’impostazione tolteca, pur mantenendo l’ispirazione rituale Maya.
Una piramide che, come recentemente scoperto, venne edificata intorno ad un’altra più piccola, che, a sua volta, ne conteneva una terza, in una sorta di gigantesca matrioska.
La piramide di Kukulcan (che per i toltechi era invece dedicata al dio serpente Quetzalcoatl) evidenzia una serie di gradoni a base 52, sviluppata per nove piani fino a simboleggiare i mesi dell’anno, sovrastata da un parallelepipedo che consente di completare esattamente la numerazione dei giorni.
Lungo i suoi gradini sono scolpite incisioni stilizzate che richiamano, anche grazie a una sapiente inclinazione delle pareti diagonali che cattura i raggi del sole, la danza del dio serpente. I gradini sono stretti, tali da costringere i sacerdoti che li salivano ad alternare i piedi in un moto oscillatorio che imita quello del serpente.
La piramide è imponente e carica di fascino, eretta in posizione orientata a segnare, nel ricorrere del solstizio, l’esatta divisione tra le pareti illuminate e quelle in ombra: la vita svolta nella morte, che non ne è l’epilogo, ma l’inizio di un ciclo purificato dal passaggio nell’inframondo.
Questa credenza ancor oggi fonda il culto della “Santa Muerte”, celebrato in Messico l’ultimo giorno di ottobre con una devozione religiosa cui suona a oltraggio l’adesione al mito di Halloween, importato dai gringos nordamericani e sguaiatamente festeggiato subito dopo, ai primi di novembre.
Chichén Itzà conserva l’assetto di città, in una pianta con un ampio spazio per il mercato, tra colonne che un tempo reggevano coperture in legno e la lunga piazza rettangolare dove si svolgeva la gara rituale della pelota, che culminava con il sacrificio agli Dei del capitano della squadra vincente, massimo onore per richiedere la benevolenza celeste. Non una tenzone sportiva, come la concepisce il mondo moderno, ma un esercizio di abilità che, nei solstizi, al 21 di marzo e di settembre, voleva ingraziare i favori degli Dei alla comunità.
Peccato che la solennità e lo spirito dell’antica cultura vengano traditi e turbati dal mercatino diffuso che ha invaso il sito.
Artigiani e commercianti espongono bancarelle di fortuna e stanziali tra i monumenti e inseguono i turisti con ammiccamenti per piazzare la loro merce.
Sarebbe stato meglio tenerli all’esterno, magari ampliando l’area mercatale che circonda l’ingresso al parco, ma ormai non si riuscirà più a estrometterli. Il bisogno di lavoro è troppo, in un Paese dove ancora la maggioranza della popolazione è povera.
La nostra visita è agevolata dal rapido correre delle nubi, con un vento che amichevolmente porta momenti d’ombra e folate piacevoli e profumate di foresta a mitigare la calura delle ore centrali.
Il rientro ci vede stanchi e le seggiole del bus, rinfrescato dal condizionamento, sono un rifugio per oltre due ore lungo strade dritte e chiare.
Concludiamo l’escursione sul traghetto, tenendo il viso al vento e respirando l’aria salmastra del golfo caraibico.









