Piazza Vittorio, l’impronta di Torino

Piazza Vittorio Veneto è il luogo che più amo di Torino.

Per i torinesi è “Piazza Vittorio” (e basta), anche perché la sua prima denominazione fu “piazza Vittorio Emanuele I”, ma la dedica al re sabaudo venne sostituita nel primo Novecento con quella celebrativa della battaglia contro gli austriaci nella Prima guerra mondiale.

Nacqui nella periferia torinese, ma sin dai tempi del liceo il mio legame con la città passava per il centro, per quell’area dall’architettura sobria ed elegante che si distendeva, regolare e squadrata, sull’antica pianta romana e sui successivi innesti napoleonici e sabaudi.

Non amavo gli spazi più esibiti e didascalici, come le grandi piazze Castello e San Carlo, ma piuttosto quelli più raccolti nei quali si respirava la storia, come il piccolo gioiello ch’è Piazza Carignano, tra il teatro omonimo, nel palazzo che fu sede del primo parlamento piemontese e nazionale e il museo del Risorgimento.

Qualche anno dopo scoprii piazza Vittorio.  Mi colpirono la profondità prospettica e la sua geometria.

Un caro amico e maestro me ne raccontò la storia e mi illustrò le sue particolarità.

La piazza nacque negli anni Venti dell’Ottocento. Fu uno degli accessi previsti dal piano urbanistico napoleonico, mai realizzato, che venne in parte ripreso dai Savoia. Rappresentò il passaggio tra il paesaggio collinare, il fiume e la città, tanto che inizialmente era conosciuta come piazza del Po.

Divenne un grande spazio aperto, tanto che nessun monumento ne interruppe la linearità larga ed estesa. Per questa sua peculiarità fu per un breve periodo piazza d’armi, ma presto cambiò nella sede prescelta per eventi che raccolgono gran pubblico. A lungo vi si tenevano le manifestazioni del carnevale, con tanto di carri ed esposizioni. Ancor oggi è la tribuna per i fuochi d’artificio sul Po la notte di San Giovanni.

Inoltre – scattano qui ricordi della mia giovinezza – è il luogo deputato per le grandi manifestazioni: i cortei studenteschi del ‘68 e tutte le sfilate del Primo Maggio, con le bandiere, i canti, l’allegria e la voglia di un mondo migliore e più giusto. Il mio primo Primo Maggio per mano a mio padre, lui con il fazzoletto rosso al collo e lo sguardo fiero, io, appena sei anni, quasi nascosto dallo striscione su cui campeggiava il nome della fabbrica nella quale mio papà era delegato sindacale. Si partiva da piazza Vittorio, allora come credo ancor oggi.

Quel mio maestro, che mi indusse a scrivere per la rivista che lui dirigeva – e fu il primo a valorizzare la mia vocazione letteraria e di corsivista critico – mi spiegò anche una meraviglia della piazza che pochi conoscono.

Se ci si mette con le spalle a via Po e si guarda la piazza in direzione del ponte Vittorio Emanuele I, le due file di colonne appaiono perfettamente allineate, senza spazio tra loro. Un’illusione ottica straordinaria, in tutto simile a quella che si genera, prendendo l’adeguata posizione, nella piazza San Pietro a Roma.

Un effetto che deriva dalla geometria costruita sull’esedra alberata che scendeva dal ponte all’ingresso della città storica e che l’architetto Giuseppe Frizzi creò compensando progressivamente, nell’altezza dei colonnati, la differenza di oltre sette metri tra l’accesso da via Po e il fondo della piazza sulla riva del fiume.

Tutto congiurava per rendere, nel mio cuore e nel mio spirito, quella piazza il segno di Torino e delle mie radici.

Le mie passeggiate in città trovavano nel suo riferimento un richiamo irresistibile.

Nella mia memoria resta impresso il momento in cui vi portai Anna, che avevo da poco conosciuto. Uscimmo dall’ufficio e la guidai attraverso il classico percorso: i pesanti portici di via Roma, l’attraversamento arioso di Piazza Castello, poi la camminata nei colori delicati di via Po e infine l’imbocco che schiude la vista verso il Po e la collina, sulla spianata di piazza Vittorio.

Era autunno inoltrato, il clima era freddo e umido.

Entrammo al Caffè Elena, lo storico bar affacciato sul lato sinistro dei portici, locale un tempo frequentato e amato da Cesare Pavese.

Un’altra chicca della tradizione di Torino, incastonato nella piazza cinta da colonne più grande d’Europa.

I 40.000 del 10 novembre in piazza Castello

Con la manifestazione che portò 40.000 persone al centro della capitale piemontese, intorno alla parola d’ordine “SI-TAV”, Torino torna a muovere la storia, innescando processi capaci di incidere nella dinamica socio-politica dell’intero Paese.

Non è davvero poco per una città che attraversa una lunga fase di declino, con il tramonto del duopolio tra sinistra riformista e grande capitale che ha finito per consegnarla al governo dello scontento e a farne terreno di sperimentazione della sedicente “decrescita felice”.

Non ero a Torino, sabato 10 novembre. Ci manco da due anni ma ne seguo le peripezie tenendomi informato, la amo e ne soffro il declino, che iniziò con la fine dell’industrialismo di massa.

Se ancora ci vivessi avrei partecipato alla manifestazione convocata dalle “madamin” sotto la simbolica insegna “SI TAV”.

Ho letto i post e i commenti, ho guardato video e fotografie.

Un successo di presenze, una lezione di garbata e educatissima protesta. Molto torinese.

Ma anche emblematica di questi tempi, quindi con una valenza più generale.

Il Paese è attraversato dalla controrivoluzione reazionaria. Non sembri un ossimoro. Il coagulo di proteste, malcontenti, paure, egoismi, vindici strali che stanno alla base del  governo – e del consenso – per Lega e M5S trova fondamento nell’illusorio richiamo a un mondo che non c’è più. Quello di un Paese tutto sommato tranquillo, non ricco ma con discreta diffusione di sicurezza economica, fuori dall’onda delle migrazioni esterne, della globalizzazione, dove la competizione (anche questa concentrata sul mercato interno) si giocava sulla capacità di arrangiarsi (declinata in varie versioni, dall’assistenzialismo nel meridione al nord-est operoso e insofferente del fisco), senza grossi investimenti.

Così la forma rivoluzionaria di una propaganda giacobina, tradotta, appena possibile, in misure che irridono la complessità parlando alla pancia degli elettori afferma valori reazionari: chiusura, nazionalismo, razzismo, rifiuto della mediazione, sprezzo della scienza e della competenza.

Ma dall’altra, ben individuata nella manifestazione di Torino, emerge soltanto una controrivoluzione moderata. Non si intravede progetto alternativo perché ci si limita a propugnare la continuità di uno sviluppo che garantiva benessere e coesione: alta velocità, infrastrutture, grandi eventi, investimenti in arte e cultura, nel segno dell’apertura e dell’unione europea.

Non per caso questi valori mobilitano quei settori della società che erano rimasti silenti e temono oggi la decrescita che colpirebbe anche loro.

Temi che non affascinano i giovani, che suonano lontani a quanti hanno perso il lavoro o che subiscono il degrado delle periferie.

Mi sembra, in sintesi, che in campo si confrontino due conservatorismi: uno apertamente regressivo, l’altro illuso sulla linearità dello sviluppo e della storia.

Credo che il crollo dei valori e delle ideologie sia, invece, il risultato di uno sviluppo che, sebbene forte e impetuoso, ha polarizzato la società: pochi ricchi sempre più ricchi; aumento dei poveri; arretramento dei settori mediani che, perdendo la corrente ascensionale (nel reddito e nella considerazione sociale) si vivono come impoveriti.

Il resto, compresa la guerra intestina tra i poveri vecchi e nuovi (col suo corredo di razzismo, sovranismo, sessismo e omofobia) non è che conseguenza di tale fenomeno.

Se questa è la genesi dell’attuale crisi, la sfida che si presenta alla ricostruzione di una politica “alta” e “morale” è di disegnare un modello di crescita che intervenga non solo sulle determinanti della ricchezza (conciliandole con la sostenibilità ambientale) ma anche su quelle della redistribuzione (rendendole coerenti con la sostenibilità sociale).

È giusto combattere l’idiozia della “decrescita felice”, ma occorre sapervi contrapporre la “crescita equa”.

Consiglio a chi già dipinge il “movimento del 10 novembre” che ha riempito la piazza Castello a Torino come la riscossa delle forze della modernità di dedicarsi all’elaborazione di una proposta innovativa più ampia e più ambiziosa.

Perché c’è bisogno di un orizzonte di speranza concreta e fattibile, nella quale coinvolgere i giovani e gli esclusi.

Torino e la clessidra

Questo studio risale al 1992. Torino era investita dalla crisi del crollo del suo profilo di città dell’industria di massa. Occorreva cercare strade nuove. Tentai di indicare quelle che mi sembravano più promettenti. Ben poco venne raccolto. Torino perse dinamica e ricchezza. Una nuova tristezza si sostituì a quella ritmata dai tempi dell’industria. Risalire non è agevole, sconcerto e scontento hanno portato al governo della città chi nega radici e vuole inventare un futuro senza visione strategica, in parte figlio della teoria – non esplicitamente ammessa – della “decrescita felice”. Sigh!

Torino e la clessidra