E ancora cerco le parole

(per il Maestro Battiato)

Con quel sorriso intelligente e una vena di malinconia

In un mondo che ha fretta, dove tutto si consuma in velocità, dissolvendosi senza lasciare autentico ricordo, molti si precipiteranno nei necrologi, per esser i primi a rendere omaggio a un grande maestro che se n’è andato, silenzioso e discreto nei suoi ultimi passi.

Credo, invece, sia necessario fermarsi a riflettere.

Come sempre Franco Battiato ha fatto.

Con il suo modo d’essere, di scrivere, di cantare.

Creando un tessuto di emozioni e pensiero che ha accompagnato il percorso di più d’una generazione.

Con la delicata passione per l’essenza. Di chi non pretendeva di indicare la via, ma sempre la inseguiva nel profumo e nelle voci del Mediterraneo, guardando a Oriente.

Una filosofia, un’interpretazione dell’umano errare con i piedi piantati nella tradizione e la suggestione dell’eternità. Del ritorno e del presente, come eco di futuro.

Voleva vederla danzare, ma, insieme, sapeva che ci voleva un’altra vita per difenderla da ipocrisia e ingenuità.

La sua opera sapeva parlare a chi voleva ascoltare oltre le metafore e le apparenti illogiche capriole tra ossimori e fughe quasi oniriche.

Così per me fu stimolo e struggimento.

Una colonna sonora per una vita mai paga di scorrere in superficie, tra il bisogno di verità e la coscienza dell’incertezza, nella continua ricerca di profondità, dove l’ancora della conoscenza salva dall’abisso dell’ignoto.

Quella sensibilità che rendeva melodia le sue canzoni: l’armonia tra versi e musica ben al di là del ritmo, che pure frequentò per le ascendenze rock.

Non trovo sufficienza nelle parole: troppo vaghe, troppo povere per il patrimonio artistico che il Maestro produsse.

Proseguo, allora, la ricerca. Come fu tutta la sua esperienza di autore e interprete.

La ricerca è sale e miele per arrivare al nocciolo dell’esistenza nel rapporto con ciò che è fuori di noi e nel quale siamo chiamati a fonderci senza perdere individualità: l’ambiente, la società, la storia. L’amore.

Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo.

E ti vengo a cercare

(Franco Battiato – 1988)

E ti vengo a cercare

Anche solo per vederti o parlare

Perché ho bisogno della tua presenza

Per capire meglio la mia essenza.

Questo sentimento popolare

Nasce da meccaniche divine

Un rapimento mistico e sensuale

Mi imprigiona a te.

Dovrei cambiare l′oggetto dei miei desideri

Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane

Fare come un eremita

Che rinuncia a sé.

E ti vengo a cercare

Con la scusa di doverti parlare

Perché mi piace ciò che pensi e che dici

Perché in te vedo le mie radici.

Questo secolo oramai alla fine

Saturo di parassiti senza dignità

Mi spinge solo ad essere migliore

Con più volontà.

Emanciparmi dall’incubo delle passioni

Cercare l′Uno al di sopra del Bene e del Male

Essere un’immagine divina

Di questa realtà.

E ti vengo a cercare

Perché sto bene con te

Perché ho bisogno della tua presenza.

Un romanzo Fantasy a tutto rock

Nowhere degli High Tide resta, per me, l’emblema del progressive rock. La musica e il testo ne fanno una sorta di manifesto dell’infrangersi di una smisurata ambizione.

Fu un genere che portò molti gruppi a una ricerca esasperata di nuovi sentieri dell’espressione artistica attraverso le note. Quasi potesse nascere una Nuova Musica, capace di essere sintesi di tutta quella che l’aveva preceduta, in un processo palingenetico in parte simile a quello che musicisti sinfonici, come Bruno Maderna, Luciano Berio, Edgar Varèse, sembrarono avviare alla metà del Novecento, ispirando successivamente la musica dodecafonica e la breve stagione della musica concreta di Pierre Schaeffer e Pierre Henry.

Il movimento – che tale non riuscì e non volle mai definirsi – fallì. I gruppi che lo animavano si sciolsero o finirono per ripetere sé stessi, oppure per avviarsi su una china di fortune commerciali che smarrivano la ricerca nata sul finire degli anni Sessanta e perduta dopo la metà dei Settanta. Un’ondata alta e finita.

La tensione e il vigore di quella musica, superba e maledetta, mi appassionò. Pensai che quell’impasto di musica colta e avventurosa, sfidando quasi la storia e il pentagramma, celasse un sostrato magico. Forse perché discendeva dall’ubriacatura psichedelica.

Nowhere riassumeva la confusione, i desideri negati, le delusioni e disillusioni, con il suo testo contorto, introverso, nell’abisso al cui fondo c’erano il nulla e la disperazione, sulle note esasperate, prolungate e struggenti del violino di Simon House, contrappuntate dalla chitarra di Tony Hill e percosse dai battiti della sezione ritmica.

La mitica proiezione magica delle composizioni – delle band giovanili, che sfacciatamente le eseguivano con lo sguardo all’eternità – mi ispirò, nella seconda metà degli anni Settanta, una fantastica saga nella quale la musica assumeva poteri magici e a sovrintenderla (almeno nella sua versione pop e rock, fino al progressive) arrivava un geniale scienziato, ossessionato dall’estetica della musica.

Il “Professor Bizz”, con i suoi straordinari poteri, si era creato un mondo personale (che aveva battezzato Azzurra Fantasia Eterna, una delle tante dimensioni parallele dell’universo), aveva rapito tutti i più grandi musicisti e ve li aveva portati, offrendo loro l’immortalità in cambio della loro incessante produzione musicale.

Questo Paradiso sospeso nell’immobilità del tempo iniziò a disgustare alcuni dei geni della musica che, appresa la forza della magia dei loro strumenti e canti, tentarono la fuga del dominio del Creatore Bizz (come ormai, nella sua fenomenale follia, si era autonominato).

Su questo sfondo, sviluppai nella mia immaginazione fantastiche storie di fughe, lotte, conflitti, su e giù per le tante dimensioni parallele dell’universo, nelle quali i musicisti incrociavano Dei e semidei, cavalieri, maghi e ogni sortilegio o leggenda.

Avevo interi quaderni di appunti e molti spunti che erano rimasti a correre nella mia mente.

Alcuni tra essi confluirono nel romanzo “Cercando una gemma sommersa”.

Rimasto per 40 anni nel cassetto, esce ora in una elegante edizione (cartacea e in ebook) per la Lupi Editore (distribuzione su piattaforma Amazon).

Sono 546 pagine dense di avventura. Non il classico sword and sorcery. Semmai il fuoco del rock a guidare le spade, il ghiaccio della sinfonia a sfumare la magia, vibrazioni psichedeliche a far turbinare domande e ad accendere i sogni, inseguendo la pienezza della vita.

Io sono molto cambiato da quando inventai quelle storie. Nonostante questo, mi è piaciuto rileggere il romanzo, correggerlo con la maturità degli anni e la consapevolezza stilistica che mi viene dal lavoro sviluppato per la pubblicazione dei miei libri di narrativa gialla.

Il mondo fantastico della magia musicale continua a contenere molte storie non ancora scritte.

Nowhere (High Tide – 1969)

Venture in through other dreams
Find the gates of those that (? seems the?) and shrieks lie
Hastly are the days of doubt
Marking time and shutting out each warming smile

Only one so do I reach
Upon the bed of cool we sleep to live and die?
Estimating what we know
And what should be the goal between a laugh and cry?

And nowhere is there me…

As in wanna song his far enough away
But thought was swallow if has kissed
The single mine goodbye

Feature on the highest scream
Effigies of souls are seen to come and go
Moving through the mists of fear
Fortified with haze of cheer they come to know

But somewhere there is you…

As they wanna song his far enough away
The thought was swallow if has kissed
The single mine goodbye

Crumbled stage, there is no door
At your feet the moving floor desides to burn
No (?…?) falls on the ear
Suddenly the way is clear again you turn

But nowhere is there me…

Il valore universale della musica

Foto di gruppo al termine del concerto

Bella, la scelta di concludere la stagione estiva dei concerti nel Giardini di Villa Paolina con l’esibizione dei giovani allievi della scuola Xiya International Piano di Jiangning (Nanchino).

I ragazzi e le ragazze ci hanno regalato non solo saggi di pianoforte, ma anche pezzi cantati e strumentali.

A dimostrazione che la musica è una magia d’emozioni che attraversa confini e culture, i giovani arrivati dalla Cina si sono cimentati con Puccini e, per la parte strumentale, con Mozart e Schubert.

Accanto a questi scampoli di cultura europea hanno voluto, con merito, proporre composizioni di autori cinesi e sublimare la serata con musica della loro tradizione, aprendo con “Fiori di Gelsomino” e chiudendo, ancora in coro, con “Io e la mia patria”.

Oltre alla maestria puntigliosa delle esecuzioni, colpiva l’entusiasmo di questa compagnia di giovani, virtuosi e ancora in formazione, nel trovarsi immersi in un contesto dalle cui radice nasce quell’immenso patrimonio melodrammatico che tanto successo riscuote a ogni latitudine, anche fin nelle lontanissime contrade che videro i fasti del regno di mezzo.

Culture millenarie che si incontrano, nel segno della curiosa attenzione alla storia, alle tradizioni, al comune desiderio di una modernità che salvi la meraviglia delle arti e ne faccia fondamento dell’amicizia tra i popoli e le nazioni. Per un mondo più sereno, lanciato con ottimismo verso un futuro di armonia, pace e bellezza.

W.A. Mozart: Concerto K 216 –
Piano: Zihihao Wang, Violino: Qi Dai

Sentimento e intelligenza: Marcorè interpreta Faber

La collina

Andare ai concerti allunga la vita. Lo sostiene uno studio scientifico, basato su rilevazioni campionarie che distinguono il gruppo dei frequentatori di spettacoli musicali.

Non so se sia vero. Certo, quando note e versi avvolgono e accendono emozioni, portando in alto, a ritrovare l’essenza di sé nella sensazione di “capire” il messaggio dell’artista, ci si sente davvero bene. Frammenti di felicità e armonia.

Se poi la qualità della rappresentazione raggiunge vette di intensa empatia collettiva, le tensioni si placano e ci si sente sollevare oltre i limiti del presente.

Così è stato nella mirabile interpretazione di Neri Marcorè alle canzoni di Fabrizio De Andrè, intitolata “Come una specie di sorriso” nella serata del 10 agosto a Villa Bertelli.

Il merito va esteso agli accompagnatori dell’esibizione: Gnu Quartet, Simone Talone alle percussioni, Domenico Mariorenzi alla chitarra (e non solo), Flavia Barbacetto e Angelica Dettori come vocalist.

Le canzoni di Faber sono uno scrigno di perle cangianti e preziose.

Marcorè ne ha offerto una lettura attenta, lieve nell’approccio e profonda nel richiamo ai contenuti. Capace di riferimenti ironici e ficcanti all’attualità, contro la pochezza di chi si fa forte cavalcando e gonfiando l’onda delle paure e dei più sordidi impulsi.

Un concerto che si è snodato come inno alla libertà, all’ascolto, al valore delle diversità.

Non ideologia, ma umanità, come quella di comprendere perfino i propri rapitori, perché è quel che Fabrizio fece, componendo Hotel Supramonte.

Poi l’eccellenza della musicalità, con Anime salve, frutto stupendo della collaborazione con l’altro grande cantautore, ligure come Faber il poeta: Ivano Fossati.

La bellezza può ancora salvare il mondo. Esco dallo spettacolo con questa convinzione, nutrita dall’ovazione, condivisa in un applauso corale del pubblico: tutti in piedi nel salutare i protagonisti sul palco.

La bellezza ch’è arte, quando la sincera e appassionata, naturale allegria del rapporto tra chi recita e chi assiste arriva a penetrarel’anima: l’invisibile centro in cui cervello e cuore si fondono e si esaltano, diventando sentimento, che, in un’evidente ermeneutica, è sinonimo di intelligenza.

L’arte, che dispensa gocce di eternità, ci fornisce la risposta, restituendo logica emotiva allo scorrere consapevole della vita. L’arte ch’è istinto e ragione, estro e puntiglio.

Riprendiamoci l’essere, il tempo della coscienza, il valore della profondità.

Fuggiamo il travolgimento dell’esaltazione istantanea, che subito si perde per inseguire quella successiva. Godiamo pienamente momenti e giorni, assaporiamone l’effetto che tocca la nostra interiore essenza. Quel piacere che l’avere e il possesso non potranno mai darci.

Un concerto: poesia cantata e musica evocatrice sanno suscitare emozioni e riflessioni.

Se non allungano la vita, certo la rendono più piena e felice.

Un giudice
Princesa
Creuza da ma’
Don Raffaè
Anime salve

Afroquiesa Orchestra: Giovani in scia alla world music

Capita di scoprire, proprio vicino a casa, che la ricerca musicale, la produzione di musica d’avanguardia, si alimenta del talento e della passione di giovani che qui vivono e, per mia fortuna, da queste parti fanno spettacoli.

Così è stato ier sera, al GROB festival, alla pineta di Levante.

Quiesa è una frazione di Massarosa, che da Viareggio, dove abito, dista appena 12 km. Lì ha avuto origine la formazione che tanto m’ha impressionato ieri sera.

Un chitarrista e un batterista locali, che evidentemente hanno rock e ritmo nelle vene, hanno via via aggregato altri giovani, fino a creare una band coraggiosa già nella composizione: quattro fiati (sax, tromba, trombone, flauto), due percussioni, due chitarre.

La loro musica, davvero originale, è una ondata di pura energia.

Difficile incasellarla in un genere. Vi si trovano funky, rock con derivazioni jazz, deviazioni sulla world music che profuma di Africa e di sperimentazione.

Una musica che travolge, trascina, evocatrice di atmosfere piene di colori e scenari tra istinto selvaggio e futuro eco-tecnologico.

Giovani non ancora famosi come ritengo meritino.

Spero presto possano trovare il percorso per il successo e per sviluppare l’originalità della loro ispirazione. Magari, ipotizzo, attraverso la maturazione delle linee che già accarezzano e magari l’inserimento di passaggi di voce.

Nel frattempo, consiglio a tutti gli amanti del rock evolutivo, a quelli che amano le contaminazioni e la ricerca di un futuro con radici nella musica primigenia, di non perdersi l’occasione di ascoltare queste promesse di nuovi orizzonti.

Canzoni nella vita e nella storia

“Il romanzo della canzone italiana[1]” di Gino Castaldo è un libro che si legge in un susseguirsi di ricordi ed emozioni.

Per quelli come me, nati negli anni Cinquanta, cresciuti con l’ideale di un mondo più libero e giusto, nutriti a rock e cantautori, passati attraverso il tramonto dell’orizzonte rivoluzionario del ’68 e approdati a una maturità più moderata ma ancora attenta ai valori, la narrazione dell’autore accende il falò della storia attraverso il filtro della musica.

“È solo musica leggera”, come canta Fossati, “ma la dobbiamo imparare”.

E vale la pena anche di capirla, di interpretare l’impatto culturale delle canzonette, che sono molto di più che questo.

Castaldo lo fa, con passione, con meticolosa ricostruzione, legandole in chiave tematica più che temporale.

Ne vien fuori un romanzo che è la storia dell’evoluzione della società, recitata dal succedersi delle mode musicali e dalla capacità degli interpreti, autori ma anche soltanto esecutori, d’essere epigoni dei desideri, delle aspirazioni, dei sentimenti collettivi.

Piacevole da leggere, il libro svela episodi poco noti e aiuta a meglio comprendere quei versi e note che furono colonna sonora dei nostri momenti migliori o che ci consolarono quando la vita girava storta.

Forse esagerando, talvolta, sensi e valenza, ma certamente facendo emergere quanto l’arte, nella forma della canzone abbia saputo rappresentare, questo libro ci accompagna a ripercorrere una lunga fase del cammino del Paese, dal miracolo economico al declino post-industriale, e della nostra vita.

 

[1] Gino Castaldo: Il romanzo della canzone Italiana – Ed. Einaudi – 2018

Claudio Rocchi

Andando a cercare tracce del proprio vissuto culturale sul web si scoprono notizie e fatti che ci erano sconosciuti.
Sull’onda del revival dei miei gusti musicali, mi sono ricordato di Claudio Rocchi, cantautore che aveva capacità di fascinazione, molto evocativo e rappresentativo di una certa inclinazione al misticismo e all’utopia della nostra generazione.
Ebbene, conservavo memoria di “Viaggio”, “Volo magico”, La tua prima luna”, nulla sapendo della sua evoluzione e della sua vita.
Dal web ho appreso molti altri aspetti interessanti.
Nacque nel 1951 e una malattia se lo portò via nel 2013
Il suo debutto fu in qualità di bassista degli Stormy Six, a 18 anni, ma già l’anno seguente iniziò la carriera come solista e ancora l’anno dopo già consacrò il suo ruolo tra i leader del progressive rock italiano pubblicando Volo magico.
Dal 1969 al 1982 fece uscire ben 14 LP (dei quali il primo con gli Stormy Six), restando vivace protagonista della ricerca musicale.
Nel 2013, già malato, con una raccolta di fondi finalizzata, autoprodusse un LP dal titolo significativo Vdb23/Nulla è andato perso. Questa edizione limitata sarà ripubblicata postuma nel 2015.
Venne molto apprezzato, agli esordi, da Renzo Arbore, che lo promosse in radio e, nel primo LP, totalmente acustico, trova la partecipazione di Mauro Pagani (flauto e violino).
Nella sua carriera musicale incrociò altri artisti, tra i quali Franco Battiato.
Tradusse, tra gli altri, pezzi di James Taylor.
Fervente pacifista, aderì ai seguaci di Krishna, fondando anche una stazione radio dedicata. Del resto, fu, ancor prima, conduttore radiofonico per la Rai, in programmi dedicati ai giovani e alla musica.
Nel 1999 fondò la prima radio libera nazionale del Nepal, che dirigerà per tre anni.
Concludendo, non si può non riconoscere che fu una personalità originale, capace di vivere senza timori e con pienezza esperienze davvero alternative al sentire comune. Non stava nel gregge, ma la sua personale rivoluzione fu più interiore che sociale ed egli non la brandì come un’ascia, limitandosi a testimoniare per sé e per quanti lo conoscevano.

Ode al progressive rock.

Corde pizzicate tra battiti distonici
e suoni dilatati di organi e fiati
con voci estese oltre il blues
su versi d’angoscia stralunata.
Come a cercare un futuro
diverso dalla linea all’orizzonte.
Per noi giovani allora:
slanci di fantasia,
sogni di bellezza non convenzionale.
A cercare l’assoluto della musica nuova
poi perduto alla svolta del secolo,
schiacciato dalla velocità
come dal ritmo binario.
Fine del cammino
consegnato alla memoria,
nel cuore,
nelle emozioni,
nell’ebrezza di una luce.
Nei suoni della giovinezza romantica.

Una sera, parlando di musica, scoprendo passioni comuni, mi si accesero ricordi.
Coinvolsi mia moglie Anna nella ricerca delle perle antiche di quel momento di passaggio dal rock cosiddetto “pop” a una fase di ricerca che voleva nobilitarlo. Ricerca che si rivelò fallimentare in chiave storica, perché l’ambizione di fare del “progressive” la musica del futuro, colta e giovanile, intrisa di passioni etiche e di aneliti verso la politica della felicità, si scontrò con l’evoluzione dell’economia (globalizzazione e finanziarizzazione), la caduta della cultura materiale nelle maglie del consumerismo, l’irriducibilità dell’arte musicale al predominio di una sola tendenza.
Ma la presunzione tipicamente giovanile di chi crede che il mondo debba essere rivoltato e rifatto a immagine della propria generazione contiene sempre quell’ingenua e spontanea bellezza ch’è fatta di idealismo, che mischia speranza e disperazione, sconcerto e improvvisi entusiasmi. In una formula: vitalità e voglia di futuro.
Per questo è stimolante e piacevolmente nostalgico riandare a quei tempi, a quei suoni.
Conscio dei limiti, forgiato dalle successive esperienze di uomo.
Cercare le tracce musicali che li segnarono e commentarle perché ancora risuonino emozionanti e gradite alle nostre orecchie è un modo per tentare di ancorare il destino di chi le condivide ad attracchi comuni nell’oceano delle nostre vite.
Tra vecchi album, ne segnalo alcuni, noti o rimasti relativamente in ombra.

The Byrds
Gruppo californiano che si affermò come antesignano del folk rock per poi passare al rock orientaleggiante e allo psichedelico.
Dalla metà degli anni sessanta ai primi anni settanta la formazione conobbe vari rimescolamenti, intorno ai leader storici Roger Mc Guinn e David Crosby. Quest’ultimo, per i dissapori con Mc Guinn lasciò il gruppo e formò il celeberrimo supergruppo Crosby, Stills & Nash, cui si unì poi anche Neil Young.
Il disco il cui titolo coincide con il nome della band è una raccolta fuori commercio di alcuni tra i maggiori successi dei Byrds.

Surrealistic pillow – Jefferson Airplane
Flight log – Jefferson Airplane
I Jefferson Airplane sono uno dei primi gruppi di rock psichedelico. Nascono nel 1965 sulla west coast, a San Fancisco, con tendenza folk, ma presto si convertono a una musica più dura e impegnata. Nella formazione storica troviamo Marty Balin (fondatore), Jorma Kaukonen, Paul Kantner (cofondatore) e Grace Slick, dalla voce inconfondibile.
Furono protagonisti nei maggiori eventi di rock della storia: i festival di Monterey (1967), Woodstock (1969) e Altamont (1969).
Surrealistic pillow (1967) è l’album, il secondo del gruppo, che esprime il taglio psichedelico della musica dei Jefferson Airplane.
Flight log è una raccolta dei successi 1966-1976.

Steve Winwood, Jim Capaldi, Dave Mason, Chris Wood, Rick Grach, Reebop Kwaku Baah, Jim Gordon – Welcome to the Canteen
Steve Winwood è uno dei maggiori geni della musica contemporanea. Debutta nello Spencer Davis Group e a soli sedici anni compone “Gimme some lovin’”, che diviene una hit mondiale. Poco dopo, sempre autore e cantante del gruppo, lancia “I’m a man”, altro grande successo. La sua voce è roca e profonda (rara per un bianco) e la sua inventiva musicale ecclettica e raffinata. Quando fonderà i Traffic ne farà una band dallo stile inclassificabile: nata sull’impronta del rock psichedelico varierà verso il jazz, recupererà il blues e il folk, componendo pezzi straordinari come “Dear mr fantasy” (un must della luminosa contaminazione di generi) e “John Barleycorn must die”, nel quale la tradizione delle ballate gaeliche si profonde nel rock melodico sul canto malinconico ed evocativo del leader.
Welcome to the canteen venne registrato dal vivo (1971). Alla formazione base dei Traffic si unirono lo strumentista Rick Grech (basso), che aveva collaborato con Winwood nei supergruppi Blind Faith ed Airforce e Jim Gordon, batterista, strumentista per molti musicisti di fama come Eric Clapton, Joe Cocker, Frank Zappa che affianca il titolare dello strumento Jim Capaldi. Ma è fantastica la performance di Reebop Kwaku Baah, percussionista guineano, che rende la versione live di Dear mr fantasy un pezzo travolgente e aggiunge alla seduzione del rock raffinato il rapimento nel ritmo, in un impasto di assoluta magia.

Truth – Jeff Beck
Jeff Beck esordì come strumentista di chitarra acustica e sin da ragazzo si esibì in club per poi divenire strumentista per una casa discografica. Nel 1965 entrò negli Yardbirds, che con lui conobbero il successo (notissimo “For your love”). Condivise per due anni il ruolo di chitarra solista con Jimmy Page, poi lasciò il gruppo.
Vi è da notare che gli Yardbirds annoverarono nei loro ranghi prima Eric Clapton, poi Jeff Beck e infine Jimmy Page. Il primo fonderà i Cream, di Beck diremo tra poco, Jimmy Page fu all’origine dei Led Zeppelin.
Tutti e tre furono inseriti dalla rivista Rolling Stones tra i migliori chitarristi di tutti i tempi: Clapton secondo (dietro Jimy Hendrix), Page terzo, Beck quinto (dietro Keith Richards).
Jeff Beck, lasciati gli Yardbirds, fondò una propria band, chiamandola Jeff Beck Group, del quale fecero parte Rod Stewart (voce solista) e Ron Wood, futuro collaborataore stabile dei Rolling Stones.
Il Jeff Beck Gruop, che durò soltanto dal 1968 al 1969 nella formazione originale, si ricompose alla fine del 1969 per sciogliersi definitivamente nel 1972, lasciando a Beck una carriera di solista.
Truth è il primo album del gruppo e ne sancisce il ruolo di apripista verso il genere heavy metal.

In the court of the crimson king – King Crimson
I King Crimson furono il gruppo emblematico del progressive rock. Gruppo inglese ma assai famoso negli USA, dal quale provennero anche alcuni dei molti componenti che si alternarono nella formazione, la cui costante rimase la leadership di Robert Fripp.
Per un breve periodo ne fece parte anche Greg Lake, poi affermatosi nei celeberrimi ELP.
La parabola del successo dei King Crimson è la rappresentazione epifenomenica dell’affermazione e del fallimento del progetto progressive.
Essi raccolsero ispirazioni e tendenze di vari generi: rock, metal, melodico, classico-sinfonico, psichedelico, fondendole in sonorità coraggiose e sfidanti. Le prime prove furono eccellenti e innovative, ma poi rimasero come impantanati in una ricerca che ritornava su sé stessa o regrediva su generi già percorsi, alimentando conflitti e dissidi che portavano a diaspore, ingressi, false ripartenze.
Restano straordinari l’album di debutto, In the court of the crimson king, e quello successivo, In the wake of Poseidon (sul quale non condivido la critica che lo ritiene una mera ripetizione del primo e che mi pare, invece, uno sviluppo coerente del progetto iniziale). Declinante il successivo Lizard e poco significativa tutta la produzione seguente.

Living in the past – Jethro Tull
I Jethro Tull sono un gruppo inglese tra i più famosi al mondo, avendo venduto oltre 60 milioni di dischi.
Loro animatore e leader è lo scozzese Ian Anderson, che ebbe l’originalità di porre al centro del loro sound il flauto traverso, connotando ispirazioni che spaziavano dal jazz al folk non senza richiami alle melodie classiche, così inserendo il gruppo tra quelli etichettati come progressive.
Del gruppo non raggiunsero la fama altri componenti oltre il leader, ma va notato che vi comparvero, per brevi periodi, Toni Iommi, poi fondatore dei Black Sabbath e Phil Collins, già membro dei Genesis e che raggiungerà uno straordinario successo come solista.
La discografia dei Jethro Tull è molto ampia.
Living in the past venne registrato dal vivo nel 1972 e raccoglie alcuni dei pezzi più significativi, dall’esordio al concerto live, poi superati in popolarità dai successivi Acqualung e Locomotive breath.

Interesting times – High Tide
Gli High Tide sono un gruppo inglese assai talentuoso, che viene identificato come il fondatore del progressive metal. In verità è difficile classificare la loro musica, frutto della furia creativa del chitarrista Tony Hill che si incontra/scontra con il virtuosismo hard del violinista Simon House (violino ovviamente elettrico).
La band rimase in attività dal 1969 al 1970, producendo due album di grande vigore: Sea shanties e High Tide. Entrambi presentavano pezzi di forte intensità, sia nell’impasto musicale che nei testi, densi di cupo pessimismo e di rappresentazioni dell’orrore verso convenzioni e conformismi.
Il primo LP mi colpì molto. Lo acquistai dopo averne letto una recensione sull’unica rivista italiana che trattava con competenza di novità nel mercato musicale anglosassone. Riuscii a ottenerlo ordinandolo al più grande negozio di dischi di Torino (lo storico Maschio, ormai da tempo chiuso). Per me fu una conquista preziosa. Lo ascoltavo con religiosa attenzione perché non era orecchiabile ma andava compreso e digerito.
Dopo lo scioglimento del gruppo, i due leader tentarono ripetutamente di ricostituirlo, senza risultati.
Nel 1989, con l’ausilio di strumenti elettronici e di altri strumentisti, Hill e House riuscirono a recuperare pezzi e spirito originario, pubblicando due album inediti: Precious cargo, già registrato in presa diretta nel 1970 e non pubblicato per lo scioglimento della band avvenuto subito dopo e Interesting time, che riprende i temi tipici del gruppo. Altri inediti, con la partecipazione di musicisti ospiti, saranno pubblicati successivamente.
Gli High Tide furono, di fatto, una meteora nell’universo della musica leggera/impegnata, che attraversò quel cielo con una scia di fuoco luminoso striato di viola e di nero, urlò la sua rabbia contro il presente e seminò rocce incandescenti che esplosero sul mercato musicale così frantumando la loro carica eversiva.

Una scintilla s’accese nella memoria del vecchio rockettaro

Qualche sera addietro.
Capita che salga alla mente una strofa, o un motivo, o entrambi, di vecchie canzoni.
“Che ne sai tu di un viaggio in Inghilterra”… Non rammentavo il titolo!
Internet soccorre. Si arriva in un niente al video Youtube: “Pensieri e parole”.
Uno dei pezzi più toccanti e originali di Lucio Battisti. Quand’ero giovane per tutti Battisti rappresentava la via italiana al rock che recuperava la melodia e rapiva nelle storie sempre tristi che Mogol tesseva sulle sue note.
Fin qui nulla fuori dall’ordinario.
Finita la canzone, resta la voglia di ascoltare altra musica. La casetta è silenziosa, teniamo la TV spenta, abbiamo zittito anche la radio.
Cerchiamo altra musica.
Per coincidenza – invero strana – nell’elenco alla destra di “Pensieri e parole” Youtube propone “Killer” dei Van der Graaf Generator.
Un brivido mi traversa la schiena.
Ricordi di quando, poco più che sedicenne, stetti sulla soglia di un locale in via Le chiuse a Torino, nella sera che vi riceveva l’unica data piemontese dei Van der Graaf. Erano gli anni di rivolte giovanili. Molti vennero urlando slogan per la musica gratis. Pur frequentando allora la sinistra extraparlamentare non avevo avuto alcun preavviso della contestazione che si veniva scatenando.
Ci fu parapiglia con i pochi agenti di polizia che presidiavano l’evento.
Pigia pigia e spingi e spingi, l’ingresso del locale fu violato.
Entrai, io che avevo preacquistato il biglietto, con qualche centinaio d’altri che si erano conquistati di forza l’accesso.
La sala era più da discoteca che da concerto: un sotterrano con qualche colonna sui lati, una pista centrale, un piccolo palco appena rialzato di venti centimetri sulla pista.
Che follia collocarvi l’esibizione di una band inglese emergente!
Era una torrida sera d’estate. Soffitti bassi, sovraffollamento, scarsa aerazione.
L’umidità colava dal soffitto, mescolandosi al sudore e al respiro.
Mentre stava suonando il gruppo d’appoggio (riempitivo prima dell’arrivo delle star), l’impianto elettrico saltò.
Più nessuna amplificazione, solo soffuse luci d’emergenza.
Nella confusione crescente, verso le 11.00, i Van der Graaf Generator arrivano e prendono posto.
Ma il rock elettrico senza energia elettrica non è possibile.
A quel punto, a calmare gli animi, il leader del gruppo, Peter Hammil, imbraccia una chitarra acustica e comincia a strimpellarla.
Le note sono dapprima sommarie, poi prendono ordine e si distendono ad ammaliare.
Infine scende il silenzio e tutti ci disponiamo, premuti gli uni contro gli altri, in piedi sulla pista e fin verso gli angoli della sala, come un cerchio di ossequianti un rito.
Peter Hammil gorgoglia due colpi di tosse, a schiarirsi la gola.
Poi inizia a suonare, da solo, con i compagni che lo circondano, silenti e immobili.
L’unica luce inquadra il viso dell’artista, ne evidenzia solchi di sofferenza intorno alla bocca e sulla fronte.
Accompagnato dalla chitarra, Hammil comincia a intonare i versi di “Killer”, con una voce che – priva di qualsiasi amplificazione artificiale – sale a invadere tutto il locale.
Pare magia.
Canta quell’unico pezzo, dilatandolo tra assoli di chitarra e acuti vocali.
Ne rimaniamo tutti conquistati ed estasiati.
Non c’è più rabbia, né rincrescimento per un concerto rock fallito.
I grandi artisti sanno parlare al pubblico in ogni circostanza.
Nonostante il disastro organizzativo, nonostante la delusione di aver sentito un solo pezzo, non posso non ricordarla come una serata memorabile, che mi insegnò come il rock si nutre di comunicazione emotiva e di atmosfere, ben più che di decibel.

The Troggs – Successi dei miei anni verdi

Scopro ora che è stata pubblicata in CD dalla MegaDodo una strepitosa raccolta di successi dei Troogs, sotto il titolo On Air: The lost broadcast.
I Troggs furono un gruppo inglese che conobbe l’apice del successo nel 1966. In quell’anno cantarono Wild thing, che la rivista Rolling Stones classifica al n. 257 della classifica delle canzoni di tutti i tempi, poi vi fecero seguire Whit a girl like you e I can’t control myself.
Il resto della loro storia musicale, che si concluse nel 1992, non è allo stesso livello di questi tre pezzi.
I critici sostengono che la loro musicalità fu il riferimento per lo sviluppo dei generi detti garage rock e punk rock.
Come sia, risentire la loro musica ruvida e graffiante mi da sempre un’emozione, anche perché mi ricorda la giovanile passione per la musica d’avanguardia di quei tempi.
Con pezzi che meritano di essere considerati “senza tempo”