A.Ca.b: si inizia con il passo giusto

Era una scommessa. Avevamo improvvisato l’organizzazione e ancora poco ci conoscevamo. La pubblicità dell’evento non contava su altro che i nostri canali social, qualche manifesto, un po’ di passaparola.

E, per di più, s’era dovuto decidere all’ultimo di anticipare la presentazione alla domenica, visti gli annunci allarmanti del meteo per il giorno successivo.

Abbiamo accettato il rischio.

La presentazione collettiva, voluta e interpretata nel segno del valore della lettura, con lo scopo principale di alimentare l’amore per i libri, il rilancio del piacere di trarne emozioni e conoscenza, s’è fatta.

L’andamento è andato altre le nostre più ottimistiche previsioni.

Argutamente stimolati dai due book blogger Chiara (Chiaramentelibri) e Matteo (Degusti_book), abbiamo illustrato le ragioni e il significato della nascita del nostro gruppo e dell’iniziativa, illustrato i nostri libri, ritagliato brevi spazi di autopromozione, giocato con il pubblico.

Senza vanità e senza inutile modestia, siamo stati bravi. Abbiamo esposto temi, proposto sentimenti e idee rispettando i tempi e con efficacia dialogica.

La presentazione è fluita dinamica e interessante, densa e accattivante, davanti a un pubblico attento e coinvolto.

Alla fine, s’è anche venduto qualche libro. Fa sempre piacere firmare dediche e nuovi lettori che manifestano interesse a quel che s’è narrato.

L’importante, il risultato che ci esalta, è il salto di qualità nell’unità di intenti e nella comune sensibilità. Tutti ne siamo usciti sottolineandolo.

Questa prima prova possiamo ben considerarla un successo.

E siamo intenzionati a costruirne altre, a portare in giro il nostro amore per i libri, perché il gusto della scrittura nasce e si alimenta della moltiplicazione delle letture. Nonché dallo scambio con il pubblico che si realizza negli incontri come quello di domenica 27.

È doveroso ringraziare il Bagno Nettuno (e Simona in particolare) per averci ospitato e per aver creduto nella bontà della nostra proposta. Altrettanto un ringraziamento va alla libreria Mondadori di Viareggio, che ha curato la raccolta e vendita dei libri.

Con Matteo e Chiara ci siamo detti che non finisce qui. Abbiamo aperto un rapporto di gruppo dentro l’originalità dell’esperienza, che siamo certi di potere positivamente coltivare.

Tra noi cinque la certezza è condivisa: A.Ca.b. comincia a navigare e può tentare il mare aperto. Ci metteremo entusiasmo e fantasia, impegno e intelligenza.

Ho filmato l’intera serata.

La ripropongo nel mio canale youtube (qui sotto il link).

È lunga, ma niente affatto noiosa. Gli spunti sono molti e diversi, la passione li percorre dall’inizio alla fine.

Chi vorrà vederla potrà trovare molti motivi di interesse.

Barbara Baraldi – Il fuoco dentro

Janis Joplin: un romanzo di furia e desideri perduti

Janis Joplin, per la mia generazione, è un mito. Una goccia incandescente di voce rock nell’universo del rifiuto di un mondo chiuso e bigotto, vecchio. Eravamo giovani. Anche chi, come me, non era un beatnik, sentiva in quella musica di ribellione il richiamo di cieli aperti e di libertà, il rifiuto del conformismo, un anelito di fratellanza e il diritto a vivere la fantasia.

In parallelo c’era il risveglio della politica, vissuta come movimento inteso a rovesciare la cultura, ad affermare la giustizia sociale, a cancellare segregazione, razzismo, guerra, sopraffazione dei forti sui deboli.

Nella parabola di Janis Joplin vedemmo, quando giunse alla fine, quanto era difficile affermare nella realtà quelle belle speranze, quelle utopie giovanili.

Come lei, Jimi Hendrix, Jim Morrison: tutti morti – forse per overdose, ma non è certo fosse così – nel giro di pochi mesi, tutti appena ventisettenni.

Nel 1970, da giovane studente, ricordo che il 19 settembre il quotidiano Lotta Continua uscì con la foto in bianco e nero a sovrastare questa didascalia: Jimy Hendrix. Suonava la chitarra come un Dio. Morto per overdose. Con lui i padroni hanno vinto.

Ecco: lo spirito con cui si saldava la voglia di rivoluzione e la musica dei giovani.

Vedendo annunciare il libro dedicato da Barbara Baraldi alla ribelle texana che lasciò presto la sua città, quasi fuggendo, fremetti nell’attesa. Il tema mi affascinava e conosco la bravura letteraria dell’autrice, eccelsa narratrice di thriller, capace di creare personaggi duri e disperati, prede dei loro fantasmi.

Ma una domanda accompagnò l’attesa: cosa aveva spinto una narratrice dell’oscuro ad accostarsi a una rockstar di un tempo diverso dal suo?

Resto senza risposta. La nota con cui Barbara Baraldi chiude il libro parla di una scintilla e una sfida. Ma non dice perché Janis. Salvo spiegare, a posteriori, quanto sia stata conquistata dalla vita di questa diva / perdente, lacerata tra l’ebbrezza del palco e la miseria delle relazioni, sentimentali e umane.

Con lei, dice l’autrice, è nato un senso di fratellanza, scavando orrori che sono ancora con noi: il bullismo, il disprezzo per la diversità, la grettezza, l’odio che secerne calunnie.

Così Baraldi ha raccolto tutto ciò che poteva parlarle di Janis: libri, documenti, musica, registrazioni, interviste, filmati.

Ha potuto scendere negli abissi della sua vita e sulle effimere vette del rapporto emotivo con il suo pubblico.

La penna della Baraldi sa attingere all’intensità dei momenti, alla profondità della solitudine, al desiderio autodistruttivo di scavalcare la negazione della felicità.

Con la medesima maestria letteraria dei suoi migliori thriller riesce a evocare la potenza e l’originalissima melodia di una voce inimitabile, quel canto che Janis ritmava battendo forte i piedi sui palchi e lanciando occhiate ammalianti sui musicisti che la accompagnavano, stregando il pubblico quando piegava la testa e le note sgorgavano, furenti e impastate di sentimento, dalla gola vellicata e urtata dall’alcool.

Non è un biopic.

Come rivela, Barbara Baraldi dagli elementi biografici ha ricavato un personaggio. Non era importante ricostruire una verità storica, ma far vibrare i contenuti dei desideri e delle realizzazioni che rimangono. Perché non stinge la sua musica e ancora vivono le imperfette, perdute e sognate, allegorie di ciò che credeva possibile.

Una biografia avrebbe dovuto inquadrare i fatti nella cornice storica, riflettere sui travagli di una generazione che voleva trasformare il mondo e solo in parte – certo non la palingenesi che allora pareva l’obiettivo minimo – c’è arrivato, infine disgregandosi in mille diversi ricoli.

Non è l’intento né la vocazione dell’autrice.

Il romanzo (perché così credo si debba classificare) è il racconto della dimensione di un personaggio scomodo ed emblematico.

Merita leggerlo non per riscoprire Janis – che i suoi tanti ammiratori già conoscono e tengono nel cuore – ma per attraversare con lei, nella versione che ci viene offerta, la sofferenza e l’esaltazione, i momenti di trionfo e le umiliazioni, la corsa verso la fine.

Da percorrere d’un fiato, dalla prima all’ultima pagina, con la tensione ininterrotta che è la cifra dello stile di Barbara Baraldi.

Federico Faggin

Irriducibile: La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura

Federico Faggin è l’inventore del microprocessore. Scienziato di fama mondiale, imprenditore, lasciato l’impegno diretto nell’industria tecnologica iniziò a interrogarsi sulla natura della conoscenza.

Figlio di un filosofo, le sue riflessioni partirono da una profonda insoddisfazione per lo stadio d’approdo del pensiero scientifico e, come spiega nel libro qui recensito (e nel precedente (intitolato Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza) perché le grandi soddisfazioni raggiunte nella sua carriera, cui aveva finalizzato l’intera vita, non lo rendevano felice.

Da allora, nell’incendio dell’anima di uno stato eccezionale in una notte del 1990, in Faggin sbocciarono uno stato spirituale di gioiosa pacificazione e la consapevolezza che la verità può essere indagata soltanto nell’identificazione tra l’osservatore e ciò che è osservato. Alla fine, risolse che il mondo è un’unità nella quale ogni essere senziente è parte e tutto.

Da lì si avvia l’excursus dello stato delle conoscenze scientifiche, la critica all’insufficienza del riduzionismo meccanicistico che retrocede la realtà alla sua descrizione, scambiando il significato per i simboli che tentano di rappresentarlo.

Attraverso una ricognizione dei criteri interpretativi della fisica classica, raffrontati alle nuove frontiere della meccanica quantistica, l’autore constata che ancora non si è giunti a una teoria generale in grado di unificare quella quantistica dei campi e la relatività generale.

Ne deriva che se il sapere scientifico è incapace di afferrare la natura della vita, che è variabile e irriducibile a leggi di prevedibilità assoluta, la verità va ricercata partendo da un diverso approccio.

Per Faggin “La vera intelligenza è intuizione, immaginazione, creatività, ingegno e inventiva. È lungimiranza, visione e saggezza. È empatia, compassione, etica e amore. È integrazione di mente, di cuore e di azioni coraggiose.”

Le macchine possono sviluppare equazioni e algoritmi a velocità e di complessità impensate, ma non potranno mai possedere la coscienza, quindi mai saranno vive.

Coscienza e libero arbitrio sono i caratteri che connotano la vita, che sola può generare altra vita.

Ed ecco che la seconda parte del libro ci proietta in quella dimensione spirituale che fonda l’esistenza del mondo e il suo divenire come atto della conoscenza di sé di Uno, così definendo l’universo in sé, nel quale tutti gli esseri senzienti concorrono all’evoluzione, anche costruendo processi di scambio e comunicazione tramite l’informazione “viva”.

La definizione dei concetti e la profondità di analisi sono spesso spiazzanti: tutto pare molto semplice ma infinitamente complesso.

A me la lettura ha restituito molte più domande che risposte. Ma, in fondo, filosofia e scienza, nell’unica certezza dell’imperfezione, non hanno proprio il fine educativo di muovere al dubbio, a interrogarsi per cercare la verità, sapendo che potrà essere avvicinata (e mai afferrata compiutamente) soltanto per approssimazioni successive?

Il protagonista di un mio romanzo giovanile trovava due domande per ogni risposta. È nella mia indole l’irrequietezza della ricerca continua.

Il saggio di Federico Faggin ha il merito, oltre al pregio della chiarezza divulgativa e della ricchezza delle riflessioni, di comunicare sensibilità e serenità. Già questa è una ragione per leggerlo.

Jacques Attali – Cibo

Mangiare bene per vivere bene

Il saggio pare, all’inizio, soltanto una dotta e rigorosa narrazione della storia dell’alimentazione nello sviluppo delle civiltà, dall’antichità ai tempi moderni.

Quando si arriva alla contemporaneità, il livello di coinvolgimento sale: nel lettore, che scopre – attraverso il rimbalzo tra dati e osservazioni di taglio sociologico – una realtà che travolge la presunta neutralità dei comportamenti individuali e rivela la fredda e lucida passione dell’autore, impegnato a stimolare consapevolezza e azione per arrestare la deriva verso la distruzione delle condizioni stesse di sopravvivenza dell’umanità.

Jacques Attali è una delle grandi menti della cultura francese. Economista, scienziato, suggeritore di politiche con Mitterand, protagonista di iniziative e studi di rango europeo. Grande divulgatore che, nella sua sterminata ed eclettica erudizione, spaziò, nella saggistica, dalla storia dei rapporti tra i sessi alla demografia, alle problematiche dello sviluppo, ma non disdegnò il romanzo e le biografie.  

Capace di uno stile scarno e diretto, sa colpire con frasi dense di significato.

Verso la conclusione del saggio che commento, illustra con magnifica efficacia cosa, per lui, dovrebbe significare mangiare: Se vogliamo che l’umanità sopravviva e che tutti possano vivere appieno una vita sana e veramente umana dobbiamo cambiare il modo in cui il cibo viene prodotto e distribuito. Dobbiamo dedicare molto più tempo al cibo, a prepararlo, servirlo e consumarlo, a creare relazioni sociali durante i pasti e, infine, sviluppare consapevolezza del fatto che attorno alla tavola si fa e si disfa il potere.

Perfetta sintesi. L’attuale modo di produzione alimentare contribuisce per quasi un terzo all’impronta di carbone che sta distruggendo il pianeta. Gli attuali comportamenti alimentari lasciano centinaia di milioni di persone alla fame, diffondono patologie collegate al consumo di cibi malsani (obesità) o alla malnutrizione (anoressia). La perdita del valore sociale della preparazione e del godimento conviviale del cibo condanna le persone alla solitudine e alla sudditanza vero il consumismo dissipatorio.

Mi portò alla lettura di questo saggio la convinzione che la sfida dell’emergenza ambientale sia fondamentale per tutti noi e che potrà essere vinta soltanto affiancando il cambiamento di scelte individuali a radicali trasformazioni dei modelli di produzione, distribuzione, sviluppo. Sapevo che il settore alimentare ne è parte assai rilevante.

Il saggio offre ampia documentazione per confermare l’esigenza di scelte non più rimandabili.

Ma fa molto di più.

L’inizio quasi piatto cresce verso un finale pirotecnico, vincendo ogni indifferenza e scendendo fino al nucleo della coscienza del lettore.

I dati valgono non all’astratta e mera illustrazione del quadro, diventando base per unire economia e cultura. Il cibo non va ridotto a mezzo di sostentamento, ma riscoperto nel suo valore di momento di scambio, di crescita, di incontro, a nutrire corpo, intelletto e anima.

L’umanità, per salvare sé stessa e non assecondare la catastrofe incombente dell’autodistruzione, deve recuperare il rapporto autentico con la natura e le specie che la rendono ricca e varia. Perché mangiare è una necessità, un piacere, il momento fondamentale della crescita per la mente e il fisico, per costruire lo spirito comunitario.

Presentando il romanzo di Gigi Paoli

Ho avuto il piacere di presentare l’ultimo romanzo di Gigi Paoli. Non dico “l’onore” perché non so se Gigi si sentirebbe offeso (preso in giro) o mi riderebbe in faccia. Certo, da buon toscano, mi additerebbe come bischero.

Perché Gigi è talmente simpatico che l’ironia che serpeggia nei suoi libri la spiattella anche quando viene sollecitato e intervistato.

Protagonista di “Diritto di sangue” è l’eroe caustico e insinuante di tutta la serie delle cronache di Gotham: Carlo Alberto Marchi, un alter ego immaginario ma non troppo dell’autore.

Qui il fato l’ha bistrattato oltre il limite. Il grave incidente con cui si concludeva la precedente avventura ce lo restituisce dolorante e costretto a sospendere il suo lavoro al giornale dove seguiva la cronaca giudiziaria. Senonché accade che nuovi delitti riaprano un caso che tocca da vicino Carlo Alberto Marchi, riaprendo la più atroce ferita del suo passato: l’assassinio del padre durante una rapina delle Nuove Brigate Rosse.

Marchi viene richiamato in servizio, ufficiosamente, sia per i contatti che vanta in Magistratura e tra le forze dell’ordine, sia per il suo essere personalmente interessato all’inchiesta in corso.

Nella duplice veste di giornalista (che agisce dietro le quinte) e di cittadino coinvolto nel delitto al centro delle indagini, finirà per scoprire elementi di rilievo, in un rimbalzo continuo di rivelazioni con gli investigatori e gli inquirenti.

Il finale, che ovviamente non rivelo, conterrà una sorpresa, chiuderà un cerchio, ma lascerà margini di mistero, come nella miglior tradizione del giallo votato all’inseguimento del colpevole.

Libro da leggere piacevolmente, in attesa di un successivo episodio delle cronache di Gotham. In chiusura d’incontro mi sono permesso di chiedere a Gigi Paoli di non infliggere a Marchi ulteriori pene. Già fratture e acufene lo costrinsero a cercare rifugio nella morfina (terapeutica… per carità!), risparmiamogli altre sfighe!

La presentazione è corsa via stimolante e divertente. Gigi ha brillantemente doppiato le domande in cui cercavo di metterlo in difficoltà (quelle sul rapporto di Marchi con l’amore e, di riflesso, di Paoli scrittore con i misteri dell’universo femminile) e si è invece abbondantemente concesso sui temi che lo intrigano, come quello del ruolo dell’informazione cui dovrebbero assolvere i giornali dinanzi alla frammentazione e banalizzazione della presunta cronaca veicolata dal web. Una difesa del giornalismo di qualità (di approfondimento e d’inchiesta!) che ho sinceramente apprezzato.

E poi, ci ha rivelato che molte delle spigolature delle sue storie sono null’altro che una rivisitazione di esperienze dirette: così per il rapporto di affetto conflittuale con la figlia, per la descrizione di squarci di Firenze (e dei suoi locali), fino al tormento di incomprensioni con il padre, che riecheggia nella vicenda di Marchi.

Una scelta intenzionale, nella convinzione che i lettori comprendano se chi scrive parla di situazioni e condizioni che conosce. Insomma: fiction costruite su basi solide di cose vissute.

Mi pare giusto concludere con un piccolo assaggio del dialogo svolto nella presentazione.

La disciplina di Penelope, di G. Carofiglio

“Capivo il punto di vista: se era davvero innocente, un provvedimento come quello è infamante quasi quanto una condanna. Un giudice non dovrebbe fare considerazioni del genere quando archivia. Si getta una macchia su una persona che non può fare nulla per difendersi perché, appunto, non è prevista l’impugnazione di un decreto di archiviazione. Si possono scrivere le parole più pesanti, impunemente.

(…)

Quando si archivia si dovrebbe dire semplicemente che non ci sono elementi per esercitare l’azione penale, nel modo più asettico possibile. Spesso non avviene.”

Già solo queste considerazioni, al secondo capitolo, valgono la lettura del libro.

Una di quelle perle di moderazione e saggezza che l’autore suggerisce (implicitamente) a chi eserciti il potere, inteso come capacità (giuridica, materiale, psicologica) di incidere nella vita di altri.

È stimolante e coinvolgente la scrittura di Carofiglio proprio perché vi affiorano squarci di sofferta consapevolezza dell’umana insufficienza, che diviene pericolosa quando si esercita su questioni delicate. Come un’inchiesta giudiziaria, che è l’oggetto delle sue narrazioni.

“La disciplina di Penelope” è una storia esile, con al centro un’indagine assai improbabile, che corre veloce verso la conclusione.

Ma ciò che affascina è la prosa risoluta, il continuo scandaglio nella tormentata missione della protagonista.

Una storia scritta in soggettiva, con tutto il coraggio che ci vuole a un autore maschio per calarsi nel punto di vista (e dimensione di vita) di una donna.

La scommessa è vinta, attraverso il succedersi di pensieri e iniziative, senza mai concedere la descrizione dell’aspetto di Penelope, tranne la sua atletica fisicità.

Forse lasciare sullo sfondo “la cazzata” che relegò una brillante magistrata a un improbabile ruolo di investigazione privata sarà il pretesto per affidare a Penelope una nuova avventura. Il personaggio lo meriterebbe: aspettiamo occasioni per rimetterla in pista, così offrendoci un nuovo romanzo e il piacere di ritrovare Carofiglio in libreria.

Gianrico Carofiglio – L’equilibrio come risposta ai dilemmi giuridico-morali.

Confesso di aver scoperto tardi Gianrico Carofiglio. Sto recuperando il tempo perduto leggendo le sue opere uscite già da alcuni anni.

Altrettanto confesso di essere conquistato dalla profondità con cui sviluppa temi spesso difficili e sempre delicati, mantenendo uno stile sobrio, capace, tuttavia, di avvincere il lettore.

La regola dell’equilibrio è un legal scritto in soggettiva su uno spinoso incarico difensivo affidato al protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri.

Guerrieri è il personaggio con il quale Carofiglio debuttò nel genere giallo. L’autore lo ha seguito nell’evoluzione della carriera e nei travagli della dimensione esistenziale.

In questo romanzo l’avvocato viene lusingato dalla proposta di difendere il presidente del Tribunale del riesame di Bari: un giudice stimato e potente, brillante sin dai tempi dell’università, inviso a parte dei colleghi, anche in ragione del ruolo che spesso lo porta ad annullarne i provvedimenti di carcerazione degli imputati. Il presidente Larocca sa, senza ancora aver ricevuto avvisi o atti di accertamento espliciti, di essere inquisito con l’accusa di corruzione.

Guerrieri è convinto dell’innocenza del giudice, di cui conosce fama, rigore e competenza giuridica. Accetta l’incarico e cerca di frenare la smania del prestigioso cliente, che vorrebbe accelerare la procedura e far repentinamente cadere le accuse.

L’avvocato Guerrieri, con grande maestria, riesce a indebolire le tesi accusatorie e, ormai in vantaggio nel confronto con il PM, si adopera per ammansire l’impeto di vendetta del giudice.

Senonché, improvvisamente un amico poliziotto insinua in Guerrieri il dubbio che Larocca possa non essere innocente.

Le indagini affidate all’investigatrice di fiducia dello studio confermano a Guerrieri, con sua grande sorpresa e rammarico, che gli indizi a carico del suo cliente non sono frutto di macchinazione. Al contrario, emergono fatti che la pubblica accusa non conosce e che dimostrano la probabile colpevolezza.

Il fulcro della narrazione si sposta sui conflitti di coscienza, etici e professionali, che assillano il protagonista.

Un avvocato deve garantire la più efficace tutela al cliente anche se colpevole: questo è il fondamento del diritto di difesa costituzionalmente sancito. Ma, rimugina Guerrieri, il caso che sta trattando non è come tutti gli altri. In ballo c’è l’imparzialità della giustizia, lo smisurato potere di chi dichiara colpevolezza o innocenza di un imputato e che diviene terribile quando inquinato da interesse di parte.

Guerrieri dovrà misurarsi con dilemmi angoscianti, che fanno riemergere il rapporto critico con il suo mestiere, continuamente riproposto nel tempo.

Alla fine, sceglierà, anche se cercherà di non scegliere.

La ricchezza della storia è valorizzata dal continuo riferimento all’inquieta psicologia del protagonista.

Da tempo solitario dopo la rottura con l’ex moglie, la sua vita di relazione ha un improvviso e inatteso lampo. Un momento di piacere e sollievo, che rischia di interferire con la serenità dei rapporti professionali.

Gli sfoghi delle sue incertezze sono affidati al dialogo con “mister sacco”, la logora sacca da boxe appesa nel suo salotto, che risponde silente alle sue osservazioni e domande. Un vecchio amico a cui sono concesse tutte le confidenze e i pensieri che non possono esser portati fuori da quelle mura.

La vicenda si snoda con frequenti escursioni nelle vie di Bari, descritte con il sentimento di chi le vive sin da bambino.

La prosa di Carofiglio è assai personale. Intrisa di cultura, filosofica e letteraria oltre che giuridica, resta discorsiva e piana, senza mai far pesare la caratura intellettuale che sorregge, insieme a una costante preoccupazione morale, le sue opere.

In chiave di equilibrio, che non per caso riecheggia nel titolo, come valore oggi tante volte e pericolosamente sottovalutato.

Mario Tobino: Viareggio come una vela sul mare della storia

Arrivo tardi a legger Tobino. Con la difficoltà di una scrittura datata, di sostenere l’assalto di uno stile ridondante. E la consapevolezza che quel che narra è ormai in parte perduto, sommerso e travolto dai fatti che seguirono.

Sulla spiaggia e al di là del molo è spumeggiante narrazione del sorgere e affermarsi di una comunità cittadina con poche radici, molto ardimento, quasi insensato viver alla giornata creando, incredibilmente, qualità elevata dall’inesperienza e da quella strana “ignoranza” che ancor oggi i viareggini indicano come loro caratteristica, con una implicita ironia che attribuisce al sostantivo un significato diverso e lontano dal vocabolario. Così come la superficialità e il tanto ciarlare sono imperfette manifestazioni della bonomia e della solidarietà attenta, l’ignoranza esprime la volontà di affrontare gli impegni senza i vincoli delle convenzioni e senza troppo preoccuparsi delle conseguenze.

Tobino racconta la nascita di Viareggio, il fremente e illuminante passaggio delle tre giornate di incompiuta rivoluzione del 1920, illustra le figure di personaggi emblematici e dipinge gli archetipi dei popolani (marinai, calafati, mogli, ragazzi del Piazzone), fino a concludere con note malinconiche sul declino della bellezza e l’arrivo della cementificazione omologante che toglierà alla città parte importante del suo fascino.

Dentro la sua prosa esuberante, Viareggio pare una piccola Australia: costruita da genti che lasciarono luoghi in cui conducevano vita grama, resero quella terra prima inospitale una scoppiettante realtà in cui tutto cresceva vitale, un po’ disordinato, ma creativo e vincente, guidato da orgoglioso spirito d’indipendenza.

I cantieri che riuscirono a varare navi tra le più belle e funzionali alla navigazione furono la metafora dell’ascesa e della crisi della città, mettendo in crisi le professionalità tradizionali degli artigiani quando i motori presero a dominare i mari.

Leggendo Tobino si arriva a lambire lo spirito dei viareggini, in verità più chiusi di quanto appaiano al primo incontro, rumorosi esecratori di sé stessi ma in realtà orgogliosi della propria terra e della propria comunità, tanto da rendere coscienza comune un verso di Tobino che recita: Viareggio […] in te son nato, in te voglio morire. Lo stesso che si legge sul muraglione del molo, altro simbolo della città.

Il libro venne pubblicato nel 1966, raccogliendo note e ricordi rielaborati dei diari dell’autore.

Restano attuali le radici culturali, ma le stagioni successive, con il successo della balneazione e della Versilia felix hanno certo stemperato la vitalità e il legame con i valori comunitari. Il periodo della ricchezza ha fiaccato l’originalità e si colgono ora stanchezza, molle adagiarsi su vecchi allori, rifiuto di confrontarsi con le nuove dimensioni del globalismo e della modernità.

La distruzione che Tobino identifica nell’edificazione di Città Giardino ha scavato profonda, una frattura nell’identità, che lascia ancor oggi attonita la vecchia perla del Tirreno e chi, ancora amandola, la abita.

Barbara Baraldi: la tensione narrativa non conosce pause

Anna e io, con Barbara Baraldi, a Viareggio, Libreria La Vela

È da poco in libreria il terzo romanzo di Barbara Baraldi dedicato alla viceispettrice Aurora Scalviati, fremente investigatrice individualista e passionale, che l’esperienza e le sventure hanno fatto crescere come valente profiler.

Anche L’ultima notte di Aurora conferma l’elevata cifra stilistica della scrittrice emiliana, capace di catturare l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina, lungo le peripezie della figura centrale, sapientemente descritta nelle sue contraddizioni e nella sua inesausta ricerca di risposte che sono in parte una fuga da sé stessa. Intorno a lei, altri protagonisti si agitano, proposti in una chiave che esalta e ravviva il centro narrativo, sorretto dalla personalità complessa e tormentata di Aurora.

Non so se conoscete il gioco del “se fosse”.

In un gruppo di amici viene prescelto, a turno, un giocatore.

Gli altri concordano di individuare uno tra loro (ma potrebbe essere lo stesso giocatore) la cui identità dovrà essere scoperta dal giocatore.

Questi, per riuscirci, potrà porre agli altri quante e quali domande vuole, purché precedute dall’incipit “se fosse”.

Non è solo divertente: consente, se tutti partecipano con sincerità, di rivelare come ciascuno vede gli altri.

Nell’ipotesi che fosse stata scelta Barbara Baraldi come personaggio e il giocatore mi chiedesse “se fosse un regista?”, io risponderei “Sarebbe Kathryn Bigelow!”

La dinamica artista di San Carlos (California) è sceneggiatrice e produttrice, ma è anche l’unica donna a esser stata insignita del premio Oscar per la regia.

Dei suoi non molti film mi piace ricordarne alcuni.

In Blue Steel Jamie Lee Curtis interpreta una poliziotta che si innamora dell’uomo sbagliato.

Point break vede Keanu Reeves intrecciare un duello carico di adrenalina e sentimento con il capo della “banda degli ex-Presidenti”, un granitico Patrick Swayze, che cerca l’emozione suprema ed estrema sfidando onde gigantesche su una tavola da surf.

Strange Days è una distopia che, nell’imminenza del temuto millenium bug, vede delitti e intrighi coinvolgere personaggi sballati e schiacciati dall’alienazione sociale. Film visionario, psichedelico, dal ritmo forsennato.

Concludo con The hurt locker (6 Oscar, tra cui quello per la miglior regia e 3 altre nomination), che narra di militari americani in Iraq, mostrando l’impossibilità di tornare sereno per chi subisca traumi che lacerano l’anima, nel caleidoscopio della paura e della velocità di reazione da cui può dipendere la salvezza.

Ad accomunare le storie della Baraldi a quelle della Bigelow è l’abilità nel mantenere costante il livello di tensione nello spettatore/lettore. In un ritmo mai smarrito, ogni quadro e ogni episodio fanno scaturire domande sul senso del comportamento dei protagonisti, scavando nella psiche umana. Il filo logico si dipana tra svolte che non sconvolgono ma intrigano, impedendo di distrarsi e avvincono con il fascino di un mistero umano, troppo umano.

Nei romanzi della Baraldi le scelte e le azioni delle indagini disegnano, poco a poco, il profilo del soggetto ignoto cui Aurora da la caccia, volta per volta inducendo il lettore a confrontare i tratti dei vari protagonisti con la profilazione del killer. Un esercizio che sarà premiato solo al termine dell’avventura.

Ritmo, tensione narrativa ininterrotta, coerenza della trama e rigore della ricerca che sostiene i contenuti sono, in sintesi, i punti di forza dei romanzi di Barbara Baraldi.

Per me, che non leggo libri gialli per il gusto di sfidare l’investigatore a individuare per primo il colpevole, la narrazione di Barbara Baraldi è una sfida a capire che il viaggio è la meta. Perché ciò che affascina è seguire l’evoluzione della storia, la cui ricchezza di spunti (di riflessione, di rinvii a dilemmi dell’anima) parla all’intelligenza e alla sensibilità. Dove si giungerà alla fine del percorso, in fondo, è meno importante. Per questo, leggendo una storia che dona emozioni, si vorrebbe non finisse mai.

Aspettando, allora, di seguire una nuova storia di Aurora e… di scoprire come è cambiata dall’ingresso e dai primi passi in polizia, per diventare il genio spezzato che insegue un difficile equilibrio esistenziale e sa risolvere i casi più intricati.

#giorgioperuzionarra

A figura intera

Susan Vreeland: La Passione di Artemisia

Il libro racconta la biografia di Artemisia Gentileschi dalla giovinezza alla morte del padre, Orazio, pittore come anche lei riuscì a divenire, contro tutti gli ostacoli, le convenzioni, le discriminazioni e le vessazioni che una donna del secolo XVII incontrava per potersi affermare come persona, come artista, come intellettuale.

Segnalo questo testo perché è, insieme, un’opera letteraria di grande levatura e l’introduzione al genio artistico dello straordinario talento pittorico di Artemisia.

Il filo che unisce i due piani – letteratura e storia dell’arte – è quello della passione.

La si coglie nella capacità dell’autrice di narrare la storia e i travagli di una vita come dall’interno, con un sapiente uso della prima persona. Le vicende tragiche e il coraggio di Artemisia ne emergono con grande vividezza, arrivando al cuore del lettore.

La passione della Vreeland avvolge e sostiene quella della sua protagonista, facendone scaturire il nucleo centrale dell’inquieto furore artistico che anima l’esistenza di Artemisia Gentileschi, guidandone i passi, unendo istinto e paziente ricerca della perfezione. Fino a ottenere il riconoscimento del suo valore con l’ingresso all’Accademia fiorentina e l’incontro con i mecenate che le consentirono di dedicarsi in forma professionale alla pittura.

Il tratto caratterizzante dell’opera della Gentileschi è l’emozione che traspone nelle figure rappresentate: non con perfezione fredda ma con l’intento deliberato di rappresentarne sentimenti, ardori, pulsioni, desideri.

Questa intensità ha evidentemente coinvolto la Vreelend, armando la sua penna dell’ispirazione che rende affascinante la narrazione e cattura l’attenzione sino all’ultima pagina, suscitando la curiosità di vedere le opere che vi sono citate e partecipando ai turbamenti della grande pittrice.