Jacques Attali – Cibo

Mangiare bene per vivere bene

Il saggio pare, all’inizio, soltanto una dotta e rigorosa narrazione della storia dell’alimentazione nello sviluppo delle civiltà, dall’antichità ai tempi moderni.

Quando si arriva alla contemporaneità, il livello di coinvolgimento sale: nel lettore, che scopre – attraverso il rimbalzo tra dati e osservazioni di taglio sociologico – una realtà che travolge la presunta neutralità dei comportamenti individuali e rivela la fredda e lucida passione dell’autore, impegnato a stimolare consapevolezza e azione per arrestare la deriva verso la distruzione delle condizioni stesse di sopravvivenza dell’umanità.

Jacques Attali è una delle grandi menti della cultura francese. Economista, scienziato, suggeritore di politiche con Mitterand, protagonista di iniziative e studi di rango europeo. Grande divulgatore che, nella sua sterminata ed eclettica erudizione, spaziò, nella saggistica, dalla storia dei rapporti tra i sessi alla demografia, alle problematiche dello sviluppo, ma non disdegnò il romanzo e le biografie.  

Capace di uno stile scarno e diretto, sa colpire con frasi dense di significato.

Verso la conclusione del saggio che commento, illustra con magnifica efficacia cosa, per lui, dovrebbe significare mangiare: Se vogliamo che l’umanità sopravviva e che tutti possano vivere appieno una vita sana e veramente umana dobbiamo cambiare il modo in cui il cibo viene prodotto e distribuito. Dobbiamo dedicare molto più tempo al cibo, a prepararlo, servirlo e consumarlo, a creare relazioni sociali durante i pasti e, infine, sviluppare consapevolezza del fatto che attorno alla tavola si fa e si disfa il potere.

Perfetta sintesi. L’attuale modo di produzione alimentare contribuisce per quasi un terzo all’impronta di carbone che sta distruggendo il pianeta. Gli attuali comportamenti alimentari lasciano centinaia di milioni di persone alla fame, diffondono patologie collegate al consumo di cibi malsani (obesità) o alla malnutrizione (anoressia). La perdita del valore sociale della preparazione e del godimento conviviale del cibo condanna le persone alla solitudine e alla sudditanza vero il consumismo dissipatorio.

Mi portò alla lettura di questo saggio la convinzione che la sfida dell’emergenza ambientale sia fondamentale per tutti noi e che potrà essere vinta soltanto affiancando il cambiamento di scelte individuali a radicali trasformazioni dei modelli di produzione, distribuzione, sviluppo. Sapevo che il settore alimentare ne è parte assai rilevante.

Il saggio offre ampia documentazione per confermare l’esigenza di scelte non più rimandabili.

Ma fa molto di più.

L’inizio quasi piatto cresce verso un finale pirotecnico, vincendo ogni indifferenza e scendendo fino al nucleo della coscienza del lettore.

I dati valgono non all’astratta e mera illustrazione del quadro, diventando base per unire economia e cultura. Il cibo non va ridotto a mezzo di sostentamento, ma riscoperto nel suo valore di momento di scambio, di crescita, di incontro, a nutrire corpo, intelletto e anima.

L’umanità, per salvare sé stessa e non assecondare la catastrofe incombente dell’autodistruzione, deve recuperare il rapporto autentico con la natura e le specie che la rendono ricca e varia. Perché mangiare è una necessità, un piacere, il momento fondamentale della crescita per la mente e il fisico, per costruire lo spirito comunitario.

Globalizzazione: pericoli/opportunità

Dinanzi alla miseria dell’offerta politica che ha condotto ai recenti esiti elettorali, ci si interroga su riferimenti ideali e visione di futuro capaci di riaccendere speranze, mobilitare le menti e le passioni.

Nel vasto mosaico di opinioni e proposte, il tema della globalizzazione vede schierarsi una folta schiera di avversatori della più diversa origine.

Alla globalizzazione vengono addebitati la distruzione delle economie locali, la dilagante dicotomia tra grandi ricchezze e crescita della povertà, l’impoverimento del ceto medio, la perdita di identità culturale dei popoli, il cambiamento climatico e via elencando.

Da ultimo, dopo la pandemia e con l’esplosione della guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, la dipendenza da fornitori di energia (ma anche di fondamentali materie prime alimentari) lontani, egoisti e cinici, tale da innescare effetti moltiplicatori dell’inflazione e da far schizzare il costo delle bollette e del carrello della spesa.

Gli effetti sono tutti veri, evidenti e brucianti. Ma davvero la globalizzazione ne è causa? 

Lungo la storia millenaria della civiltà, raggiungere altri mondi, incontrando altre culture e traendone insegnamenti ed esperienze, è stato motore di progresso. Certo ne sono venute le nefandezze del colonialismo, la diffusione di virus prima sconosciuti ai popoli che ne caddero vittima, il susseguirsi di guerre per la conquista dell’egemonia, il controllo di territori e ricchezze. Tuttavia, alla fine, a prevalere, ad affermarsi sul lungo periodo, sono state la crescita di conoscenza e abilità, la disponibilità di materie prime che, intrecciandosi con grande duttilità, hanno portato a nuove scoperte e un complessivo innalzamento del potenziale scientifico ed economico del mondo. In modo diseguale, ma a somma innegabilmente positiva.

L’enciclopedia Treccani così definisce la globalizzazione: Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.

La globalizzazione altro non è che la fase suprema della disponibilità dello scambio esteso a tutto il pianeta. Fermarla significa frenare (o, addirittura, fare arretrare) il progresso.

Se ne deve dedurre che il diavolo si traveste da progresso?

O piuttosto il problema è il segno della globalizzazione?

Un processo naturale di feconda contaminazione tra culture è stato piegato da una logica dominante alla supremazia del mercantilismo esasperato che tutto divora, nella famelica smania di consumo che ha conquistato menti e comportamenti sull’intero pianeta. L’imperativo era produrre quantità maggiori a costi decrescenti, vendere senza tregua rendendo obsolescenti i prodotti nel minor tempo possibile per sostituirli con altri dall’analoga funzionalità ma resi appetibili da innovazioni minimali. Una competizione sfrenata, nella quale mastodontici player del mercato dettano le regole, con livelli di concentrazione del potere e dei profitti via via più accentuati, mentre i consumatori subiscono il fascino del mantra dell’avere: se non hai questo o quel prodotto non sei nessuno.

Risultati: masse accecate dalla rincorsa al superfluo, affermazione del consumo usa e getta, creazione di agglomerati di potere sovranazionale, progressiva e rapida distruzione dell’equilibrio ambientale.

Lo strumento che ha governato questo perverso processo è la finanziarizzazione dell’economia. Per accelerare la concentrazione di ricchezza, creando proventi per immensi investimenti che rafforzano il potere di chi ne dispone, il denaro genera denaro, in modo sempre più sganciato e indipendente dalla base materiale dell’economia. In parallelo, veicolando una distribuzione internazionale del lavoro che specializza i ruoli produttivi, privilegiando quelli a più elevata intensità tecnologica e i servizi rispetto alle produzioni primarie e secondarie, il valore del lavoro manuale viene sminuito e si determinano le condizioni per pagarlo sempre meno.

Qui stanno i nodi che provocano gli effetti malevoli imputati alla globalizzazione.

Per combatterli ci sono due strade, diverse e alternative tra loro.

La prima è tentare di tornare indietro. Opporsi alla globalizzazione rinchiudendosi nel provincialismo, puntare sull’autosufficienza, recuperando produzioni che sono state decentrate all’estero, sostenendo i prodotti locali e cercando di farseli bastare. In parallelo alla limitazione dell’immigrazione, al rifiuto di accogliere culture nate oltre i confini, al nostalgico richiamo di bei tempi passati.

Questo egoismo miope vive nell’ottica della coalizione che ha vinto le elezioni il 25 settembre e, in particolare, nella sua versione più coerente, della forza preminente nella formazione di destra-centro che ispira e innerva il nuovo governo italiano. Tipico aver varato il Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Nella concezione della premier e del suo ministro, sovranità alimentare significa espandere le quantità di produzione nazionale fino a renderla sufficiente alla domanda nazionale del settore. Rifiutando gli accordi della Politica Agricola Comune (e sottacendo che anche l’Italia ne riceve ingenti sussidi per il mondo contadino nazionale), retrocedendo le politiche di incentivo alle produzioni ecosostenibili e a quelle per il miglioramento dell’igiene alimentare, della salubrità individuale e collettiva. Una logica corporativa ispirata da una visione autarchica. Non per caso, in linea con l’ideologia che accompagnò la militanza dei suoi leader.

Non diversamente saranno affrontate le politiche ambientali, quelle del lavoro, della sanità, dell’istruzione, della ricerca scientifica, dell’innovazione tecnologica, della cultura. Senza dimenticare il versante dei diritti civili e i meccanismi di funzionamento della democrazia rappresentativa.

La via alternativa è imporre un cambiamento di direzione al processo di globalizzazione. La nuova attenzione che si impone alla ridefinizione delle filiere delle produzioni, dall’energia, all’agricoltura, all’industria, con il recupero di capacità produttiva in ambiti comunitari se non nazionali, permette di restituire enfasi al valore dell’economia materiale, facendo retrocedere la rapacità del capitalismo finanziario. Grandi investimenti sono necessari. Gli investimenti pubblici devono tornare a essere leve di sviluppo restituendo un compito (e un potere) di indirizzo al mercato, dando priorità agli interessi collettivi su quelli privati e individuali. Energia, innovazione scientifica e tecnologica, sanità, infrastrutture, istruzione e formazione, risanamento idrogeologico, ma anche rifacimento del patrimonio edilizio, risanamento urbanistico, guida a nuovi sistemi di mobilità sono terreni che richiedono finanziamenti pubblici, quali promotori e attrattori di investimenti privati dentro obiettivi socialmente definiti e controllati.

In tale riallocazione di risorse e obiettivi c’è lo spazio per ridare dignità al lavoro, a partire dal lavoro manuale, che deve crescere in qualità avvalendosi delle potenzialità offerte dalla scienza.

L’esempio, tra i tanti, ma rilevante per la sua centralità, è proprio quello delle politiche alimentari. L’obiettivo di offrire a tutti cibo sano e sostenibile non potrà essere raggiunto estendendo produzioni e superfici coltivate a quanti oggi operano nel settore, ma sostenendo l’agricoltura di qualità, quella che unisce il benessere del consumatore alla salvaguardia dell’ambiente.

Il cibo, come da tempo ci insegna Slow Food, deve essere buono, pulito e giusto.

Buono: ingredienti grezzi prodotti nel rispetto della natura, dei produttori, della salute dei consumatori

Pulito: prodotto con metodi naturali che garantiscono varietà, biodiversità, a basso impatto ambientale nell’intero ciclo di vita, in ambiente sano.

Giusto: non contraffatto, non adulterato, non sofisticato. Ottenuto con un’equa distribuzione del valore lungo tutta la filiera di produzione

Il cibo sano e sostenibile privilegia la qualità come valore, anche pagandolo più del prodotto industriale di massa. Si combatte la fame nel mondo potenziando le colture (e le culture) locali e non omologando metodi di produzione finalizzati a moltiplicare quantità a prezzi più bassi, foriere di diete malsane e di spreco.

Le immense sfide che attendono l’umanità non hanno dimensione puntuale. Il cambiamento climatico non può essere fermato dentro un determinato confine, la salute collettiva non si tutela chiudendo le frontiere.

Sono sfide da affrontare con l’intelligenza e la passione dell’universalismo. Si vinceranno soltanto mettendo a frutto il meglio che le tante culture sanno esprimere, favorendone l’integrazione. Coniugando politiche dall’orizzonte lungo e una progressiva trasformazione dei comportamenti. Perché non esistono soluzioni locali, ma la soluzione non arriverà senza la somma di interventi puntuali dentro un quadro di interventi sistemici complesso e saggiamente coordinato.

La globalizzazione non è il nemico della giustizia sociale.

Essere per l’apertura verso il mondo è battersi per il progresso in ottica solidale.

Essere per la chiusura è il rifiuto del futuro e l’abdicazione al governo del cambiamento.

Questa antinomia, forse, in questo nostro Ventunesimo Secolo, è la versione della contrapposizione ideale tra progressismo (orientato a una rivoluzione gentile) e conservatorismo (con le sue derive reazionarie).

Il Novecento è finito

Vasilij Kandinskij: Composizione – Museo del Novecento – Milano

C’è uno scontro generazionale sottotraccia. Non ancora evidente, perché la rivoluzione gentile dei ragazzi e delle ragazze è schiacciata dal rancore, dalle paure e dalla rabbia dei baby boomers e della generazione X.

La resa dei conti è solo rinviata.

Nella prima parte di un romanzo utopico che sto scrivendo si narra di due milioni di giovani che, il 26 ottobre 2030, provenendo da ogni parte d’Europa, si raccolgono a Berlino, luogo simbolo, verso la porta di Brandeburgo, risoluti a farsi sentire urlando “Il tempo è scaduto!”

Una giovane bisessuale, alta, magra, con la pelle scura, dal palco, da voce ai sentimenti dei manifestanti.

Inizia a parlare, a tracciare la rotta per quel movimento che è maturato, che ha la forza per vincere e deve trasformarla in capacità. Deve accettare di farsi politica per superare la politica pregna di interessi e mezzucci, deve imporre scelte dove impera la pratica dei rinvii.

Arriva alle conclusioni, semplici e chiare: «Il tempo della delega ai nostri padri è scaduto. Non sanno essere, perché inseguono l’avere. Ci offrono proprietà strappate allo scopo supremo, che è quello di divenire, di rinnovarsi nel ciclo del riuso e della riproduzione naturale. Non le vogliamo. Vogliamo vivere e amarci. Amare il pianeta nel quale e dal quale siamo nati. Noi sappiamo quel che vogliamo. Siamo uniti da questa certezza davanti a governi, politicanti, imprenditori, filosofi, intellettuali che si dibattono nell’incertezza e non agiscono, lasciando morire il mondo un po’ alla volta. Il tempo è scaduto!».

Fiction!

Giò Pomodoro: Sfera n. 5 – Museo del Novecento – Milano

Tuttavia, se precipitiamo dai voli della fantasia alle miserie del presente, ci accorgiamo che qualche premessa per quel futuro immaginato non manca.

L’esito elettorale italiano del 25 settembre non si spiega analizzandolo in sé, come fosse episodio puntuale.

Sul piano nazionale, esso segue altri sconvolgimenti nella distribuzione del consenso quali il voto per il Parlamento Europeo 2014 (trionfo di Renzi alla guida del PD) e le elezioni politiche 2018 che portarono l’exploit del Movimento 5 Stelle, con il connesso momentaneo protagonismo della Lega di Salvini, ben più dinamico del suo peso parlamentare.

La sostanziale stabilizzazione del PD (dopo la debacle renziana del Referendum istituzionale) poco sotto il 20% nasconde notevoli migrazioni anche nella composizione del suo elettorato, mentre tutto intorno il panorama è terremotato.

Inoltre, le tendenze devono essere colte anche nel quadro internazionale.

Il quadriennio della presidenza Trump negli USA non è passato indolore e l’approdo di Biden alla Casa Bianca non ritrova lo smalto da potenza egemone né risolve le crisi interne.

In Europa le forze collocate all’estrema destra crescono e cessano di essere irrilevanti per la formazione dei governi, come sta accadendo in Svezia, com’è già stato in Austria, come potrebbe avvenire in Spagna. Senza dimenticare l’irrigidimento di esperimenti di democrazia illiberale, da Orban alla Polonia. O il radicamento del partito di Marine Le Pen in Francia.

La pandemia e ora la guerra che insanguina un Paese europeo esasperano fratture sociali le cui radici stanno nel modello economico dominante a livello globale, fondato sul primato dell’economia di carta. La finanziarizzazione ha veicolato la moltiplicazione e l’accentuazione delle disuguaglianze, tra aree geografiche e sociali, con un manipolo di Paperoni sempre più ricchi a fronte dell’impoverimento del ceto medio, dell’allargamento della precarietà e insicurezza del lavoro (e del reddito), mentre quote crescenti di popolazione precipitano in condizione di povertà.

Lo sgretolamento della società industriale viene sostituita da quella “società liquida”[1] il cui valore preminente è il consumo. Avere e consumare divengono le condizioni per vedersi riconosciuto un ruolo sociale, apparire è il desiderio per sfuggire all’alienazione.

Le ideologie, con la loro oggettivazione organizzativa mirata alla conquista e controllo del potere, affogano nel nuovo mantra del consumismo.

La sovrastruttura politica viene superata dall’onda dei tempi.

Qui sta il corto circuito della crisi di rappresentanza.

Valutato questo scenario, per comprendere il successo di Fratelli d’Italia (e il fallimento di quanti volevano impedirlo) occorre il coraggio dello scandalo: cambiare prospettiva per non farsi ingannare dagli occhiali del tradizionalismo.

Nel mondo sommariamente descritto – il mondo nel quale viviamo – richiamarsi a schemi ed esperienze del passato, per quanto tragiche, eroiche o gentili, non crea consenso, forse neppure attenzione, se non in cerchie ristrette.

L’andamento elettorale (in Italia e non solo) ha definitivamente chiuso il Novecento, con le sue creature storico-ideologiche: fascismo, comunismo, ma anche liberalismo e solidarismo cristiano.

La vittoria delle destre (e, tra esse, di quella apparentemente più solida e meglio organizzata) altro non è che la somma tra un elettorato schierato su quel versante e segmenti popolari in sofferenza che si oppongono ai governi dell’emergenza e dei tecnici.

In sintesi: tra opposti conservatorismi prevale quello meno ideologico e più legato agli interessi materiali diretti (a breve).

C’è del vero nell’affermazione che l’elettorato vuol “provare” chi non ha condiviso responsabilità di governo durante le recenti emergenze, nella speranza che le risolva con ricette alternative, senza chiedersi se siano realizzabili.

Dinanzi alle incertezze quotidiane, al rischio di perdere quel che si ha o di non raggiungere quel che si era sperato, la maggioranza dei votanti cerca risposte facili e immediate. Non importa se illusorie. La rabbia e la paura prevalgono sulla ragione: si vota contro (il governo e chi l’ha sostenuto), si vota per (qualcuno che sembra forte, deciso, non compromesso con la gestione precedente), o non si vota (astenendosi).

Nella psicologia individuale divorata dal rancore è più facile cercare vendetta che mobilitarsi per il riscatto.

Le stagioni politiche sono brevi, legate al successo di un leader cui si chiede la soluzione rapida dei problemi immediati.

Come osserva Giuliano Amato, in una recente intervista, non c’è più la Politica, cioè la capacità di mobilitare speranze e voglia di fare intorno a un progetto di futuro.

Mi torna alla mente la considerazione di Alessandro Baricco, in un suo brillante articolo: il mondo è guidato (ancora) da un’intelligenza del Novecento.

Concordo.

Manca una classe dirigente del XXI Secolo.

Il Duemila ci presenta una nuova complessità, confusa dietro la banalizzazione di ogni problema. Per comprenderla non servono twist e post, battute e lazzi, ma paziente – e faticosa – riflessione.

Il rifiuto della complessità produce i risultati che vediamo: non solo quello elettorale, ma pure nella dialettica sociale e nel deterioramento del civismo.

 Questo dilagante rifiuto è la sconfitta della sinistra, che della complessità coglie solo i doveri del presente (contingente) e non i semi di innovazione possibile. La sinistra (non solo italiana) non sa spiegare la complessità del Duemila perché la interpreta con le lenti del Novecento, quindi non sa leggerne natura e dimensione. Conseguentemente, è incapace di trovare una visione del governo del cambiamento come processo sociale ed economico e non come lento movimento compresso dalle presunte compatibilità.

Per questo sconfiggere il sovranismo, fermare le derive autoritarie, non verrà dalla discussione sulla rifondazione della Sinistra.

Ecco che devo fare scandalo: la Sinistra è ormai fuori dal Tempo della Storia. Superata, perché occorre trovare nuove formule adeguate al Ventunesimo Secolo, fondate su una visione della società del domani.

Restituire un ruolo alla Politica come strumento di affermazione dell’interesse generale nel rispetto dei diritti individuali è possibile soltanto ponendo al centro dei suoi obiettivi la salvezza del pianeta, che è condizione per la salvezza dell’Umanità.

Non esiste soluzione alle disuguaglianze, alla pratica dei diritti, al perseguimento della pace se non si inverte il processo di degrado dell’ecosistema che ci ospita.

L’ambientalismo non come rivendicazione politica, come bandiera ideologica, ma bensì pratica collettiva rivolta a un nuovo modello di creazione, distribuzione e utilizzo delle risorse.

Ha ragione Carlin Petrini: non bastano le politiche governative se non cambia la cultura materiale delle persone. I comportamenti individuali dovranno riorientarsi in logica di sostenibilità. Senza sacrificare il piacere: del cibo, del viaggiare, dell’arte, dello sport, della convivialità.

Ben al di là di una transizione, occorre una rivoluzione: costruita dal basso, con nuove pratiche di vita, di lavoro, di svago, di interazione; promossa e governata da istituzioni tornate credibili e autorevoli perché ancorate a una visione progettuale del futuro.

La leadership del Ventunesimo Secolo non potrà che nascere dalle generazioni dei nativi digitali, quelli che hanno i piedi nel nuovo tempo e per questo nella testa le domande e le risposte per risolvere le immani questioni che sono loro consegnate dalle generazioni precedenti (che, dobbiamo onestamente riconoscerlo, hanno fallito!).

Nuove leadership che ridefiniranno la filosofia della politica, oltre lo schema destra/sinistra, retaggio di un secolo breve ormai consegnato alla Storia.

Ripiegando sulle angosce immediate, ecco una sommaria agenda per le opposizioni (quelle parlamentari e quelle dei movimenti).

La destra che ha conquistato il governo non ha convenienza a rotture del quadro istituzionale, ha interesse a mostrarsi responsabile e legittimata a collocarsi nel quadro delle alleanze e delle relazioni geostrategiche atlantica ed europea, né intende rischiare di vedersi negare le quote di finanziamenti di fonte UE per il PNRR.

Non sono alle viste un nuovo fascismo né una nuova Costituzione antidemocratica.

I diritti civili andranno difesi, ma anche su questo terreno il nuovo governo si muoverà con prudenza sul terreno normativo, al di là degli eccessi verbali e delle iniziative estemporanee di qualche esponente locale.

I veri pericoli sono altri.

Sul piano sociale l’inasprimento delle campagne contro l’immigrazione, additata come causa dell’impoverimento della popolazione nazionale. Ne perderemo la vitalità dello scambio di esperienze e culture, quel clima cosmopolita che si respira a Milano, unica vera città metropolitana d’Italia.

Sul versante economico avremo: l’accentuazione dell’iniquità fiscale; l’accoglimento delle istanze delle corporazioni (balneari, taxisti, sindacati clientelari, ordini professionali, ecc.); l’indebolimento dei vincoli ambientali e sociali all’esercizio di impresa; la privatizzazione di servizi essenziali, come la sanità.

E, soprattutto, verranno il freno alla riconversione energetica con il recupero della produzione da fonti fossili, la difesa di produzioni ad elevato impatto ambientale.

In sintesi: il danno della stagione del governo di destra sarà un arretramento del Paese, sempre meno al passo con i tempi, chiuso in sé stesso, ancorato al passato nelle politiche economiche e sociali e nella cultura, sempre più in affanno, perdendo la straordinaria chance di modernizzazione e progresso offerta dai fondi europei e nazionali attivati dopo la grande crisi pandemica.  

Ma intanto, potrà germogliare, nell’onda spontanea dei nuovi comportamenti dei giovani e nel farsi movimento collettivo dei loro desideri e speranze, la traduzione del nuovo idealismo ambientalista e solidale in espressione politica.

Dall’ingenua e ancora frammentaria protesta dei Fridays for future, dall’illuministico tentativo dei Volt, dalle mille aggregazioni informali di chi non si sente rappresentato, qualcosa nascerà.

La speranza nella nascita di una nuova filosofia della politica non può che essere affidata alle nuove generazioni.

Toccherà ai giovani reclamare e conquistare il potere, nel nome del rifiuto della frenesia del consumo dissipatorio e della costruzione di un futuro nel quale lo sviluppo, nel rispetto della natura, veda la tecnologia come strumento guidato dall’umanesimo e la condivisione divenga la pratica che garantisce l’equità e l’espressione dei diritti.

Per farlo, dovranno dialogare con la scienza, mettere a frutto le competenze, sapendo distinguere tra obiettivi strategici, definiti dalla Politica, e gestione dei progetti a essi coerenti, rimessi al governo contingente.


[1] Nel senso inteso da Zygmunt Bauman nei suoi numerosi studi dedicati a tale tema.

Michelangelo Pistoletto: Ragazza che scappa – Museo del Novecento – Milano

Se la mia analisi è corretta, quale impegno tocca a chi, come me, non ha più l’età per partecipare alla creazione di nuovi soggetti collettivi e vive l’irrequietezza dell’insufficienza del presente?

Non credo di poter andare oltre l’analisi, in attesa che maturi la Politica per il Ventunesimo Secolo.

Posso, tuttavia, disegnare nella fantasia un futuro possibile.

Scrivo romanzi.

Accantonando, per diversa ispirazione, la mia vocazione di giallista, ne ho scritto uno quasi autobiografico, alla cui conclusione ho inserito un’appendice che riporta l’immaginario articolo di un filosofo della politica che recita, parlando della rivoluzione che i giovani potranno portare:

“Il principio di condivisione può assumere valenza generale, fino a diventare l’ideale che fonda il modello di gestione del rapporto con l’ambiente, che va preservato per vivervi bene senza distruggerlo. Altrettanto per vedere l’altro (e il diverso) come partner anziché nemico. O per stemperare la competizione (professionale, accademica, ma anche sessuale) in un esercizio di sfida leale”.

Il romanzo, per ora, non è pubblicato, ma inviato a un premio letterario di caratura nazionale.

La nuova fatica letteraria cui mi sto dedicando, che ho citato in apertura disegna mondo nel quale, poco prima della metà del secolo, il processo che auspico sia in pieno svolgimento. In questo universo parallelo il potere politico è conteso tra due opposti ambientalismi: quello mirato allo sviluppo in chiave di sostenibilità e quello orientato alla decrescita graduale come unica strada per il ripristino delle compatibilità ecologiche.

Cerco di tratteggiare, con esempi e quadri di vita, come potrebbe essere questo mondo futuro, non privo di contraddizioni e drammi, ma indirizzato sui binari della rinascita.

Un sogno?

Le invenzioni dell’intelletto hanno segnato il progresso dell’umanità.

Giorgio De Chirico: Canto d’amore – Museum of Modern Art – New York

Cosa venire a cercare?

Gli artisti sanno essere profetici. Evocativi, ma anche espressione del loro tempo.

Era il 1988. Franco Battiato, già affermato, elitario e misticamente passionale, cantava:

“Questo secolo ormai alla fine

saturo di parassiti senza dignità

mi spinge solo ad essere migliore

con più volontà.”

Siamo nel secolo seguente a quello che lui vedeva spegnersi nella tristezza, nell’ignavia, nella miope difesa di rendite di posizione.

Siamo, nel nostro Paese, all’ennesimo corto circuito tra le emergenze e l’incapacità di praticare politiche orientate al futuro.

Assistiamo, nel mondo, a una drammatica carenza di leadership, di visione, di progettualità.

Mentre la catastrofe climatica avanza e la guerra torna a insanguinare perfino l’Europa.

Resto convinto – e l’intreccio delle crisi economiche, sociali, geopolitiche, sanitarie e, in ultima analisi, culturali – che i tumultuosi eventi che hanno cambiato la faccia del mondo impongano l’adozione di nuovi paradigmi e l’elaborazione di nuove strategie di ampio respiro.

Non sarà possibile vincere le sfide senza ritorno di un pianeta che geme e rischia il tracollo ambientale e umano applicando le ricette del Ventesimo Secolo. Gli ideali che lo hanno animato sono stati travolti dal venir meno dei loro presupposti materiali e culturali.

Per questo la guida del necessario rilancio non può essere affidata a pretesi leader seduti sulle idee del passato. Che rischiano di lasciare il campo ad altri capipopolo votati all’oscurantismo, sopprimendo le libertà e i diritti civili.

Serve all’Italia (e al mondo) una rivoluzione dei modelli di produzione, di consumo, di distribuzione. Serve l’affermazione del primato dei beni comuni, dell’investimento sul futuro, della reimpostazione del rapporto tra umanità e natura in chiave di armonia e di crescita sostenibile.

La cosiddetta agenda Draghi era ed è una linea di difesa, utile ma insufficiente.

Soltanto misurando gli obiettivi sul lungo periodo possono davvero emergere le differenze tra le proposte: non promesse elettorali in gran parte illusorie, ma misure per collocare il contenimento delle emergenze in una prospettiva di economia circolare, di solidarietà comunitaria, di valorizzazione della creatività e del talento per la liberazione del valore anche esistenziale delle innovazioni nelle quali la tecnologia sia governata dai bisogni e dai tempi dell’umanità e non dall’obiettivo della massimizzazione dei profitti.  

Non vedo partiti o movimenti che tentino risposte a questa domanda “alta” di politica.

Non trovo sedi per poterne davvero discutere.

E mi domando, nella disgregazione che ha frantumato classi sociali e tradizioni politiche collettive, lasciando spazio a richiami tribali e a nostalgie di chiusura localista e particolarista, se nascerà un fulcro di raccolta dei “senza rappresentanza”. Penso a chi vive ai margini della società (e che raramente partecipa al voto), ma soprattutto ai giovani, quelli che magari vanno all’estero per trovare sbocchi occupazionali confacenti alle loro aspirazioni.

Perché l’altra mia convinzione è che, se c’è una speranza per il futuro, essa riposi sull’assunzione di protagonismo delle generazioni che sono native digitali, per le quali i confini geografici sono labili, l’incontro tra diversità è una ricchezza e non fa paura.

I giovani, per riuscire a vivere la loro vita in una condizione di continua precarietà, hanno imparato a usare senza avere, a condividere tutto (fino, scandalosamente, agli spazzolini da denti), a cambiare casa, nazione, amici, lavoro. A rispettare la natura. A puntare alle emozioni prima che al guadagno.

Confesso: non li frequento (per ragioni anagrafiche e per condizione esistenziale), li osservo, con curiosità e ammirazione. Forse esagerando le aspettative.

C’è un protagonista che ricompare in un mio racconto e in due romanzi non ancora pubblicati che da voce alle mie ottimistiche proiezioni.

Il professor Coreglio, ormai in pensione, indica nelle generazioni nate dalla metà degli anni Ottanta il serbatoio della futura classe dirigente, perché esse vivono esperienze di socializzazione e di maturazione individuale e collettiva nel pieno del secolo corrente.

Dopo aver spiegato perché le filosofie politiche del Ventesimo Secolo si sono infrante sull’incompatibilità tra consumerismo dissipatorio e limite delle risorse, sottolinea come i giovani abbiano abbandonato il mito della proprietà in favore dell’accessibilità. Il loro governo, quando finalmente arriveranno a fondarlo, si caratterizzerà intorno all’obiettivo ideale dell’armonia: tra umanità e pianeta, tra identità sessuali diverse, tra nazioni, tra sviluppo economico e benessere esistenziale, tra progresso ed equità sociale.

Pecco di eccesso di ottimismo? Esorcizzo il dramma presente sognando un’utopia?

Forse.

I versi di Battiato che citai in premessa sono parte del testo di “E ti vengo a cercare”.

Nel 1981 il maestro catanese scrisse “Povera Patria”, amara constatazione del degrado morale e materiale di questo nostro travagliato Paese.

Concludeva: “La primavera intanto tarda ad arrivare”.

Ci ha lasciato versi e musica stupendi, per goderne la bellezza, ma anche per riflettere.

Per non perdere l’orizzonte del futuro.

E oggi cosa verrei a cercare?

La primavera che ancora spero arrivi sulle ali della gioventù che saprà fare suo il mondo, salvando sé stessa, i figli che verranno e anche noi che non riusciamo a uscire dalle gabbie di vecchie ideologie e di comportamenti inconciliabili con la sopravvivenza della Terra e dell’umanità.

Quando l’efficienza si traduce in bellezza

(Impressioni su Milano)

A pochi passi da piazza Gae Aulenti, vicino ai grattacieli e al Bosco Verticale

Da molti anni non andavo a Milano.

Non ne avevo un ricordo positivo. E, da buon torinese, guardavo con sospetto l’atteggiamento dei milanesi, che sentivo guascone e supponente.

Poi, invece, avevo letto della riscossa della capitale economica d’Italia, degli interventi urbanistici, del recupero delle aree e dei progetti di sviluppo.

Ero incuriosito.

Finalmente la pandemia s’è allentata e ho potuto andare a verificare sul posto se e come questa città sia cambiata.

In pochi giorni l’ho percorsa nelle sue dorsali principali, ho girato il centro, raggiunto luoghi topici per misurarne spirito e realtà.

Ne ho tratto un’impressione nettamente favorevole.

Una città che funziona, che sa assumere una dimensione umana, votata all’ottimismo, capace di coltivare l’arte e la bellezza.

Diversi i fattori che determinano un’efficienza dal volto umano.

Un sistema di trasporti pubblici eccellente che consente di raggiungere ogni direttrice con rapidità e comodità, imperniato sulle linee di metropolitana che si intersecano per poter passare, senza uscire dai corridoi sotterranei, dall’una all’altra o per spostarsi sulla rete ferroviaria.

La pulizia delle strade, dei monumenti, dei palazzi. Quasi incredibile in una grande città.

Il traffico ordinato, il controllo discreto ma fermo delle forze dell’ordine nei luoghi di maggior frequenza.

La qualità dei pubblici esercizi, dove la modernità si sostanzia nella ricerca della salubrità, nella varietà e spesso originalità del cibo e delle bevande, nella snellezza e puntualità del servizio.

La dinamica delle iniziative artistiche e culturali, diffuse in tutta la città a coprire un’amplissima gamma di espressioni.

La costruzione di quartieri modernissimi con la salvaguardia di spazi a verde e di aree per passeggiare senza l’oppressione dei palazzi a incombere sopra la camminata. La nuova area intorno a piazza Gae Aulenti, in questo, è esemplare.

Ricchi di opere, ben organizzati e attivi i musei e le aree espositive.

Questo insieme di condizioni, cui si accompagna la vivacità economica – a Milano l’economia che gira si percepisce a occhio – genera comportamenti virtuosi. Le persone appaiono serene, non concitate, perfino gentili oltre ogni aspettativa.

La chiave di questo successo urbano me l’ha spiegata un ragazzo che gestisce un moderno bar affacciato sul Naviglio Grande.

In sintesi, ha sostenuto che a Milano convivono persone che arrivano da ogni parte del mondo, le esperienze si scambiano, tutti ne imparano e le differenze esaltano i talenti.

L’interculturalità come sbocco naturale e generoso della globalizzazione radicata in una disciplina urbanistica che crea la metropoli vincente, moderna e bella.

Il modernismo non viene declinato, come si rischiava anni prima, come competizione aggressiva, nel segno di tecnicismi che premiano finanza e marketing. Siamo alla fase in cui si tende a realizzare il successo senza smarrire l’umanità e i valori esistenziali.

Credo, immagino – ma un po’ m’è sembrato di vederlo nei gruppi che affollavano i viali sui navigli – che siano soprattutto i giovani a guidare questa conversione epocale. A dimostrare che sviluppo, sostenibilità e realizzazione di sé possono stare insieme, che trovare il proprio posto nel mondo non significa sgomitare e schiacciare gli altri, ma condividere conoscenza, innovazione, speranza.

Un raggio di futuro.

A farci capire che se lì è possibile, lo deve essere anche altrove.

Verso nuovi modelli di produzione, di scambio, di consumo, di vita.

Verso il 2022

Cercavo versi per dare senso e ottimismo alla vigilia del passaggio d’anno.

Una ricorrenza che simboleggia continuità e novità nella vita del mondo e delle persone.

Anche in questo epilogo del 2021 siamo schiacciati del perdurare della pandemia, travolti da gragnuole di parole e opinioni nelle quali certezze si sfaldano e domande si moltiplicano.

Chiediamo alla medicina di trovare finalmente la mossa vincente contro il virus, alla politica di conciliare libertà e sicurezza. Perché tutto sembra sempre troppo o troppo poco. E siamo stanchi di appelli, di divieti, di baruffe dialettiche.

Se ci fermiamo a riflettere con serenità – è difficile farlo, ma sarebbe necessario – arriviamo a comprendere che nessuno può avere risposte definitive e risolutive.

Di fronte a un nemico infido che rimane misterioso e mutevole, la difesa si sostanzia di approssimazioni successive. Tutti siamo chiamati a tenere desta l’attenzione e altrettanto a non farci risucchiare nella deriva della desolata chiusura in sé stessi.

La pandemia ci ha rubato un anno. Quanti, come me, hanno perso il senso del tempo vissuto, come esso contenesse un grande buco nel quale s’è consumata l’attesa e l’esistenza era sospesa tra rinvii e limitazioni?

Qual che non dobbiamo farci sottrarre è il gusto della vita, che si alimenta del rapporto con il mondo e gli altri.

Se l’effetto delle costrizioni, imposte dalle circostanze e dalle regole di tutela collettiva, fosse di renderci egoisti, di vedere chi sta fuori dalla cerchia dei nostri più stretti affetti come un pericolo, una presenza da evitare, sarebbe la sconfitta della civiltà.

Neppure le guerre – che la mia generazione e le seguenti, almeno nei Paesi dell’UE, non hanno subito, spesso ignorando la fortuna di questa salvezza – hanno cancellato spirito di comunità, solidarietà, voglia di riscatto e speranza di futuro.

Impariamo da chi è uscito dalla Resistenza con la forza di ricostruire il domani, di volere un futuro, di generare figli.

Oggi tutto può apparire grigio e duro, ma la storia ha scaricato sugli eredi della Terra lutti e privazioni ben maggiori.

Allora, forse, trovare pensieri insieme dolci e responsabili può essere d’aiuto a rasserenare gli animi. Ad avvicinare l’uscita dalla coltre di nubi che sta oscurando il giorno, a spingere avanti il vascello dell’umanità. Verso una stagione che fiorirà dalle gemme del sapere, del sentimento, sulla linea che unisce il cuore al cervello, la sensibilità all’intelligenza.

Oltre le brume e le acque limacciose intorbidate dalla tempesta.

Con questo spirito offro i miei versi di oggi.

Per domani. Per un lungo e fruttuoso domani.

Transizione ecologica: le spine della rosa

La corsa alle energie rinnovabili sta tumultuosamente coinvolgendo sempre nuovi protagonisti. Gli impegni dei governi a contenere il surriscaldamento del pianeta sembrano trovare nella riconversione dai combustibili fossili al Green Power uno dei principali, se non quello fondamentale, tra gli obiettivi praticati.

È ormai convinzione generale che ciò porterà una nuova fase di sviluppo, creando posti di lavoro in misura maggiore di quelli che saranno abbandonati e profitti ancor più appetitosi di quelli declinanti. Le risorse finanziarie impiegate sono enormi, i grandi investitori mondiali sgomitano per partecipare alle industrie emergenti dell’eolico, dell’idroelettrico avanzato, del solare.

I piani di progressione del cambiamento sono studiati per bilanciare relativa rapidità e gradualità di passaggio (orizzonti 2030 e 2050).

Tutto bene? Finalmente politica ed economia pongono il progresso sui binari della sostenibilità?

Non è proprio così: luccica, ma non è oro.

Partiamo da una domanda: quanta energia occorre per produrre energia? Nel calcolo, per essere coerenti con principi di sostenibilità, bisogna metterci tutto: input di materie prime, lavorazioni, distribuzione (perché si tratta di portarla dove sarà utilizzata), gestione degli scarti.

A esempio, immettere un barile di petrolio nell’estrazione di petrolio permette la produzione di trentacinque barili dello stesso combustibile. Assai meno dei cento di un secolo fa.

Analogo calcolo per l’energia eolica deve comprendere la produzione delle pale; per quella solare la produzione dei pannelli, per entrambe quella degli accumulatori. Lo stesso per le altre fonti (idroelettrico, geotermico, ecc.). E qui il quadro si vela di nubi. I nuovi macchinari esigono rilevante impiego di minerali di difficile estrazione e sintesi: i minerali rari e le cosiddette “terre rare”. Queste ultime sono disperse e diffuse in natura e sempre legate ad altri elementi. Renderle disponibili all’uso industriale implica lavorazioni onerose e altamente inquinanti. L’input energetico delle operazioni (compreso il trasporto dai siti di estrazione a quelli di raffinazione, alle industrie di produzione degli impianti) è elevato. Se si aggiunge l’enorme problema della gestione dei rifiuti che ne derivano, il saldo ambientale rischia di essere negativo. Cioè una modesta diminuzione delle emissioni di CO2 si accompagna a distruzione di ecosistemi locali nei quali sono abbandonati i rifiuti minerari e drammaticamente (e quasi irreversibilmente) riversate le acque di scarto, spesso radioattive e sempre chimicamente letali.

Nei Paesi avanzati tutto questo non si vede, giacché i disastri ambientali sono delocalizzati nelle aree più povere e meno avanzate (e in Cina, che ha deliberatamente scelto di farsene carico, pagandone il prezzo umano e territoriale, per controllare risorse preziose, delicate e rare)

Altro caso di riconversione è quello verso le automobili elettriche. Vari studi comparativi (anch’essi comprensivi dei costi di produzione oltre a quelli di esercizio) dimostrano che una vettura a trazione elettrica, nel suo ciclo di vita, genera un impatto di CO2 pari a tre quarti di una alimentata a diesel. Questo relativo abbattimento di gas serra sconta, tuttavia, il problema dello smaltimento delle batterie, che non sono riciclabili e, per la loro composizione, sono fortemente nocive.

La riconversione ecologica necessita della diffusione delle tecnologie digitali. Esse, oltre a garantire l’industrializzazione di molti processi, stanno a base dell’esplosione dell’innovazione che ha investito anche i consumi di massa: televisori, smartphone, tablet, PC, domotica, ma anche equipaggiamento di vetture, elettrodomestici. Ormai chip e telematica sono in ogni angolo delle nostre case e segnano il ritmo delle nostre vite.

Le tecnologie digitali, per funzionare, impiegano magneti e altri particolari (sempre più miniaturizzati e leggeri) che, a loro volta, hanno quali elementi essenziali terre e minerali rari.

E, nuovamente, incrementano la domanda di materie prime ad alto costo ambientale per creare componenti con infimo grado di riciclabilità.

Ulteriore preoccupazione deriva dal largo consumo di acqua nelle produzioni che separano e sintetizzano le terre rare. Se già ora l’accesso all’acqua rischia di scatenare conflitti cruenti in Africa, lo smodato impiego di acqua nei processi industriali minaccia di rendere l’acqua potabile un bene scarso a livello globale.

Queste constatazioni fanno sorgere il dubbio che la magnificata riconversione ecologica sia una strategia volta a generare nuovi mercati e nuove occasioni di business senza davvero risolvere il degrado ambientale, contenendolo su un lato per riproporlo (magari differendone gli effetti) su altri.

Perché non esistono pasti gratis e neppure rose senza spine.

L’evidenza delle contraddizioni impone di ricalibrare le misure per una riconversione ecologica che raggiunga i suoi obiettivi in termini olistici, guadagnando risanamento su tutti i piani interessati.

Di fronte ai paventati rischi che la nuova fase di sviluppo sia strozzata dalla penuria di risorse primarie (minerali più o meno rari, acqua, sufficienza di energia), vale l’ironia di Christian Thomas, un esperto francese: Non abbiamo problemi di materia; abbiamo solo problemi di materia grigia.

Occorre cambiare visione strategica, trasformando la consapevolezza della drammatica complessità delle sfide per il futuro in comportamenti che mettano fine al consumo dissipatorio.

Per scongiurare i pericoli di una riconversione che apra nuovi fronti di degrado, le scelte tecnologiche debbono essere guidate da una visione umanistica proiettata sul lungo periodo, mettendo insieme economicità, praticabilità e autentica sostenibilità.

La progettazione delle innovazioni dovrà garantire risparmio di risorse e bassa intensità di contaminazione ambientale.

Ciò significa – ed è una decisione che spetta alla politica, contro le logiche di profitto legate allo sviluppo quantitativo – bandire l’obsolescenza programmata dei beni di consumo.

Poi è fondamentale investire in ricerca e sviluppo per prodotti e processi che privilegiano riduzione dell’impiego di risorse e riciclabilità, perché all’energia rinnovabile va abbinata la riproducibilità delle materie prime (difendendo la biodiversità: la natura, non è solo fauna e flora, ma anche oceani e fiumi, montagne, pietre, ghiacciai…).

La ricerca può non essere immediatamente capace di trovare risposte, ma è uno strumento imprescindibile per elaborarle.

Vero che bisogna agire subito, che le tecnologie ora disponibili vanno attivate. Ma uno scatto in avanti sui nuovi materiali, sull’efficientamento delle reti produttive e distributive è possibile, se le migliori intelligenze saranno sostenute da adeguati investimenti.

La pandemia ha indotto a sintetizzare efficaci vaccini in tempi più che dimezzati rispetto alla tradizione. Salvare l’ambiente, il pianeta, il futuro dei nostri figli non è meno importante.

La transizione non può essere guidata dalle logiche del profitto rapido e massimo. È in ballo la sopravvivenza del genere umano. L’attenzione e la mobilitazione dei cittadini possono e devono rendere vincenti politiche orientate all’autenticità di una montante cultura materiale della sostenibilità.

Per chiudere con una brillante massima di Albert Einstein: Non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare che l’ha generato.

La scienza è arma vincente quando è governata dall’etica.

Dopo l’emergenza sanitaria ci vuole un progetto di futuro

Vedere in lontananza l’uscita dal tunnel non significa aver trovato la strada.

Ora che il contagio sembra placarsi, che l’emergenza sanitaria pare prossima a chiudersi, si anima la discussione sulla “fase due”. Quella che lentamente, con aperture a macchia di leopardo, nella moltiplicazione di misure precauzionali, allenterà la stretta. Quella che metterà alla prova la capacità di adottare comportamenti improntati alla prudenza, ancora soggetti al dovere del distanziamento sociale, in forme che consentano la ripresa produttiva e un minimo di vita di relazione, di espressione corporea, di riaccostamento alla cultura e alla cura del corpo.

La mente non potrà rilassarsi, perché tutte le azioni con cui cercheremo di recuperare la nostra compiuta dimensione nelle sue articolazioni esistenziale, professionale, affettiva, ludica, saranno condizionate dalla paura del virus: del suo riaccendere focolai di pericolo.

Inevitabilmente, dall’angoscia del dramma sanitario transiteremo ai travagli del collasso dell’economia.

Ma qui sta un punto cardine del nostro futuro.

Come non potremo ritornare ai comportamenti ante COVID-19, così l’economia non potrà rincorrere i paradigmi che la guidavano prima della crisi.

Il mondo sta repentinamente cambiando e non sarà più come lo conoscevamo.

Scriveva Alessandro Baricco, in un suo brillante articolo, che il mondo è guidato (ancora) da un’intelligenza del Novecento. Concordo. Manca una classe dirigente del XXI Secolo.

E oggi (dal momento in cui si avvierà la ripartenza del tessuto industriale e commerciale) la sfida impone la gestione di un cambiamento radicale e generale.

Sconfiggeremo il COVID-19 (speriamo del tutto e al più presto), ma dobbiamo esser pronti a prevenire e combattere altre insorgenze virali ad alto impatto.

Questo richiede investimenti nel sistema sanitario, ma anche nelle procedure di controllo dei movimenti e dei contatti (senza cancellare i diritti alla privacy).

Quindi: strutture di medicina avanzata e di ricerca, nuove tecnologie di tracciamento e informazione, innovazione legislativa.

Ma anche revisione dei criteri di aggregazione umana. Difficile che il futuro possa contemplare i raduni di massa: forse è finito il tempo degli stadi stracolmi, delle adunate nelle piazze, dei grandi concerti sui prati.

E altrettanto: la spinta all’inurbamento selvaggio, con le periferie metropolitane ad altissima densità demografica, dovrà invertire la rotta. Perché lì la disperazione sociale, intrisa di miseria e ambizioni frustrate di popoli fuggiti dalle lande disperse del mondo, non è solo un orrore etico, ma anche un potenziale bacino di contagi.

Si possono fare mille esempi di quel che cambierà: il turismo, la somministrazione di cibo e bevande, i criteri di mobilità individuale e collettiva, la diffusione del telelavoro, la digitalizzazione dei servizi (a partire da quelli pubblici), l’impulso a un nuovo salto in avanti nella robotizzazione delle attività di produzione diretta, la formazione on line (da quella di base a quella specialistica e professionale), la distribuzione degli eventi di sport e spettacolo (inclusi quelli a maggior valenza culturale) e molto altro.

Pensiamo ai valori abitativi. Credo che la domanda di residenzialità subirà profonde mutazioni. Le famiglie, ammaestrate dalla lunga permanenza a casa e dal timore che tale situazione potrebbe ripetersi nel corso della vita, cercheranno sistemazioni che offrano: uno spazio attrezzabile a ufficio mobile (collegabile in remoto per il lavoro, per lo studio dei figli); apertura verso l’esterno (terrazzi, cortili); maggiore indipendenza (meno appartamenti in condominio, più residenze autonome); vicinanza a negozi e servizi essenziali, senza eccessivo decentramento e isolamento; salubrità ambientale. Caratteristiche oggi difficili da reperire e abbinare ad altri valori non rinunciabili (stanza per i figli, due o più servizi, box, ecc). Questo prelude a forte turbolenza sul mercato immobiliare, tanto da farmi ritenere che l’accesso alla casa dovrà, in futuro, esser incanalato in contratti volti al riuso e a una maggiore mobilità: leasing più che acquisto, un po’ come già oggi sta accadendo per l’automobile. Un sistema che permetterebbe anche il passaggio ad abitazioni adeguate alle fasi di vita: per il singolo, per la coppia giovane, per il periodo con figli, per quello in cui si torna ad essere in due, per la vecchiaia. Un passaggio che implica la creazione di complessi immobiliari forti detentori di un patrimonio abitativo articolato da vendere in concessioni temporanee redditizie ma convenienti per gli utilizzatori e da manutenere e rinnovare progressivamente in linea con i progressi della bioedilizia e della domotica.

Ho soltanto provato a immaginare una rivoluzione settoriale, come molte altre verranno.

Tutto andrà immaginato e riprogettato nello scenario tecnologico ormai acquisito e in via di incessante evoluzione.

Accettando che alcuni settori dell’economia sono destinati a un declino inarrestabile e probabilmente veloce, mentre altri sono destinati a crescere.

Trovo assai inadeguato lo scontro sulle modalità di finanziamento della risalita. Titoli emessi a livello europeo sono certamente più forti (e di più immediata disponibilità) piuttosto che crediti scaturiti dal rafforzamento del bilancio UE, ma comunque i soldi arriveranno e saranno tanti: whatever it takes, secondo la ormai nota frase di Mario Draghi. L’Europa (come tutto il mondo) sarà inondata di liquidità: verso il reddito di chi l’ha perduto e verso le iniziative imprenditoriali.

Tuttavia, come sul breve periodo non ci saranno vincoli all’indebitamento pubblico, il problema non è recuperare qualche punto di PIL.

In ballo c’è e ci sarà molto di più.

Verrà sconvolto il modello di sviluppo.

Pensare di ripristinare quello bloccato dall’emergenza sanitaria è illusorio e suicida.

La storia insegna che dopo una grave caduta dei mercati tocca all’iniziativa pubblica rigenerare la domanda. La prospettiva di un grande piano di “ricostruzione” europeo (“un nuovo piano Marshall”, come si vaticina) è corretta e affascinante.

In tale direzione non sarà sufficiente che gli investimenti risanino e recuperino e potenzino strutture e infrastrutture che si sono rivelate inadeguate: sanità, reti viarie e autostrade dell’informazione.

Occorre che gli investimenti pubblici orientino tutto il mercato, generando domanda che traini anche gli investimenti privati.

Abbiamo l’occasione per la riconversione verde dell’economia. Il green new deal timidamente approvato in sede comunitaria può diventare il faro nella rotta per la crescita sostenibile.

Intorno alla riconversione della produzione energetica, con l’abbandono progressivo, irreversibile e veloce dei combustibili fossili, vanno ridisegnate le coordinate della società del futuro.

Innescando dinamiche che agevolano lo sviluppo in logica di sostenibilità non solo ambientale, ma pure sociale, riducendo il gap nella distribuzione dei suoi frutti tra le varie componenti professionali, generazionali, territoriali. In una dialettica economica nella quale tramonta la finanziarizzazione esasperata a favore dell’investimento produttivo in beni e servizi.

Per questo accanto all’azione di governo della transizione pare necessario che le migliori risorse e intelligenze vengano chiamate a concorrere a un progetto di futuro di lungo periodo. I politici sono condizionati dalle scadenze elettorali, gli amministratori delle società pensano al bilancio annuale (quando non alla “trimestrale”): entrambi hanno visioni limitate, a corto orizzonte.

Circa due anni fa formulai un auspicio per il nostro Paese. L’articolo è ancora visibile sul mio sito (http://giorgioperuzionarra.it/2018/08/04/il-nuovo-rinascimento/)

Proponevo per l’Italia di raccogliere i migliori cervelli e le migliori competenze del Paese: imprenditori, amministratori pubblici, professionisti, politici illuminati, urbanisti, economisti, artisti, sociologi, ecc. Poiché la prospettiva disegnata apre ad una nuova leadership culturale del nostro Paese, sarebbe bello battezzarlo il “Club del Nuovo Rinascimento”.

Non un gruppo di pensatori votato alla filosofia del possibile ma una risorsa di intelligenza collettiva, scientifica e umanistica, per tracciare il progetto strategico di rilancio dell’Italia. Divenendo la fonte di ispirazione per il programma di un governo che guarda al medio periodo e supera la logica delle emergenze e del prossimo appuntamento elettorale e che seguiterà a fornire materiali per la sua attuazione ed evoluzione.

Credo che siano mature le condizioni per creare un simile laboratorio di idee a livello europeo.

Se è vero che una delle chiavi per un futuro migliore è evitare che l’urbanizzazione degradi le metropoli a megalopoli ingovernabili e pericolose, la dimensione della città media europea, carica di storia, cultura, radici, valori è il luogo più adatto a definire nuovi modelli di vivibilità urbana. Modelli che implicano interventi multistrato: di strutture, infrastrutture, istruzione, organizzazione, cultura. Modelli che costituiranno essi stessi un prodotto complesso e pregiato da vendere a livello mondiale.

Accordarsi sulla creazione della rete di prossima generazione (5G) è quasi facile, se paragonato all’impegno di rendere le città accoglienti per tutti quelli che vogliono viverci.

La consapevolezza della portata della sfida impone che venga giocata a livello europeo, perché nessuno Stato nazionale potrà vincerla davvero. Non sarà un gioco a somma zero. Se affrontato mettendo in competizione sistemi nazionali, i più forti potrebbero sopravvivere, ma ne usciranno più fragili dinanzi alle potenze maggiori: la Cina, gli USA, prime tra esse, ma anche i colossi transnazionali come Amazon, Google, Facebook, Apple, Alibaba, e altri meno noti.

Se, invece, risorse e progettualità avranno una dimensione continentale, le sinergie sapranno guidare l’offerta dal lato della domanda (prevalentemente collettiva), generando accumuli e moltiplicatori di accelerazione della crescita senza tentazioni inflazionistiche. L’unico modo, peraltro, per rientrare gradualmente dall’espansione dei disavanzi statali originati dal finanziamento della “ripartenza”.

La task force affidata dal governo Conte a Vittorio Colao è una buona scelta, ma soffre di essere finalizzata all’organizzazione e progettazione della “fase due” e dal confinamento in ambito nazionale.

Se l’Italia vuole avere un ruolo in Europa – candidandosi, coma la sua tradizione storica merita, alla leadership culturale di un “nuovo Rinascimento” – affianchi alla battaglia sugli Eurobond la proposta di creare un think tank europeo per dotarsi una visione di futuro da tradurre in progetti di crescita sostenibile.

Non dimentichiamo che le grandi svolte sono sempre nati da grandi idee e da grandi movimenti di consenso a obiettivi che univano cambiamento delle condizioni materiali a valori ideali. Fu così per la ricostruzione dopo il secondo dopoguerra, per la nuova frontiera kennediana, per l’uguaglianza di genere, per la lotta contro le discriminazioni. Non sarà diverso per salvare il pianeta e mitigare le disuguaglianze, verso un mondo a misura umana.

Friday for Future e Sardine – Arriva una nuova generazione

Non ho figli, non ho nipoti, da molto tempo ho lasciato l’insegnamento all’Università.

Quindi non ho consuetudine con i giovani e davvero non posso dire di conoscerli.

Eppure, quando, qualche settimana fa, mi inserii nel corteo degli studenti, nella prima manifestazione di Friday for Future a Viareggio, ho provato buone sensazioni, come non mi accadeva da molti anni.

Respirai lo stesso clima che avevo vissuto – allora da protagonista, ingenuo e pieno di speranze e di ardore giovanile – cinquant’anni prima, al mio primo corteo studentesco, a Torino.

Come allora, ciò che animava la scelta di far sentire collettivamente la propria voce era, insieme, il rifiuto dello stato delle cose e il desiderio di imporre una svolta: verso un mondo più giusto, più vicino al sentimento, aperto alla fantasia, alla spontaneità, alla leggerezza.

Una confusione ideale non riconducibile a precisi programmi, sebbene nell’assoluta chiarezza su quello che tutti volevano rovesciare.

Basta: alla polluzione atmosferica, alla distruzione della natura, al consumo sfrenato, al tetro dominio dell’economia astratta.

Successivamente sono venute le Sardine.

Anch’esse confusamente e gioiosamente schierate contro le negatività. Basta: alla semina dell’odio, alla violenza verbale e fisica, alla politica sguaiata e infarcita di fake news, al razzismo e all’egoismo.

Questi ragazzi, figli del ventunesimo secolo, la parte più giovane dei millenials, mostrano il candore dei figli dei fiori degli anni Sessanta, certo con meno illusioni e maggiore esperienza (filtrata dalla storia delle generazioni precedenti).

Tradizionalmente, l’ingresso dei giovani nell’arena sociale arriva con forme irruente, travalica i confini del confronto civile, scatena la naturale insofferenza verso le regole dei genitori.

Stavolta pare tutto il contrario.

Mentre la società degli adulti ribolle di rabbia e pulsioni, nelle quali il malcontento e l’inquietudine si tramutano in comportamenti tribali e nell’odio contro gli avversari (veri o presunti), i più giovani interpretano la gentilezza, la comprensione, la saggezza.

Ciò che immediatamente mi colpì, quando arrivai in piazza Mazzini e la disorganizzazione regnava sovrana, tanto da farmi supporre (erroneamente) che il corteo non potesse formarsi, fu l‘allegro stupore con il quale i ragazzi e le ragazze si incontravano e si riconoscevano.

Era tutto un domandarsi reciprocamente: anche tu qui? Per poi abbracciarsi e trovare naturale essere lì, insieme, per la Terra, per la solidarietà, per sentirsi in grado di partecipare alle scelte sul destino del mondo.

Quasi nessuno teneva china la testa sul telefono cellulare. Gli occhi cercavano gli occhi, per avere conferma di non essere soli, non aver sbagliato a scendere in piazza, per entrare tutti insieme nella Storia. Con il sorriso, l’entusiasmo, una nuova consapevolezza. L’emozione di una prima volta che non può essere vissuta per delega.

Come me e tanti miei coetanei, cinquant’anni prima.

Confermo: non conosco i giovani, non ho nessuna certezza su quel che faranno e diverranno.

Ma nei loro sguardi e nei loro gesti, titubanti e sinceri, decisi e lievi, ho visto una luce capace forse di sconfiggere le nubi che oscurano questi tempi tormentati.

Il destino del pianeta e l’economia delle fonti energetiche

Ho recentemente letto Un green new deal globale, di Jeremy Rifkin.

Un libro che consiglio a tutti.

L’autore, con l’ottimismo di chi collabora a costruire progetti di ampio respiro, in Europa e in Cina, delinea una visione planetaria di medio e lungo periodo sull’avvento della terza rivoluzione industriale, che segnerà l’abbandono dei combustibili fossili e il passaggio alle energie rinnovabili (solare ed eolico in primo luogo).

Rifkin vede all’orizzonte una società nella quale l’obiettivo della salvaguardia ecologica, l’arresto e inversione dell’emergenza climatica, cambierà, insieme all’economia, le dinamiche del lavoro e sociali.

La sua proposta vuole rilanciare l’essenza del «capitalismo sociale», un modello economico pragmatico in grado, nel breve orizzonte temporale che abbiamo di fronte, di accelerare la transizione verso un’era a emissioni prossime allo zero.

Non è facile aderire alla sua visione progressista, perché troppo poco si sta muovendo in quella direzione.

La descrizione, lucida e serena, degli scenari tecnologici, di mercato e di equilibri democratici che attraversano il saggio, ci consegna un grande dilemma, insieme portentoso e tragico, comunque straordinario e storicamente fondato.

Tutte le grandi trasformazioni economico/tecnologiche hanno comportato un massiccio intervento statale, con l’immissione di ingenti investimenti diretti e l’attrazione, altrettanto imponente, di capitali privati. Ciò fu e sarà necessario per consentire l’infrastrutturazione, materiale e culturale, che distribuisce a tutta la società i benefici delle nuove ricchezze attivate.

Il dilemma, quindi, è il seguente: sapranno i governi gestire e indirizzare le risorse, nei tempi e modi efficaci per realizzare la conversione alle nuove fonti energetiche e la creazione di una rete intelligente e flessibile per una loro efficiente e democratica distribuzione?

L’alternativa è l’avanzamento del degrado ambientale (cambiamento climatico e non solo) e l’accaparramento delle nuove ricchezze generate dal prevalere delle energie rinnovabili da parte di alcuni colossi privati, con l’esasperazione della divaricazione tra pochi ricchi sempre più opulenti e le masse impoverite.

Il tema della disuguaglianza, la scomparsa del ceto medio, il dominio dell’economia di carta (finanziarizzazione) che degrada e marginalizza il valore del lavoro, sono strettamente dipendenti da questa mutazione dei cicli di produzione legata alla sostituzione delle fonti energetiche primarie.

Questi sono i grandi temi che la politica dovrebbe affrontare.

Nessuno di essi trova spazio, se non in vuoti slogan, nei programmi delle formazioni che si sfidano in una perenna campagna elettorale, nella quale il successo di gioca su paure e risentimenti, promesse irrealizzabili, chiusure dinanzi alla dimensione globale e glocale delle questioni da cui dipendono le condizioni della vita collettiva e individuale, oggi e ancor più domani.

Che pena assistere alle urla e agli insulti!

I veri leader sono quelli capaci di trovare il consenso su progetti che, specie in tempi tormentati come quelli che viviamo, guardano a visioni di futuro, non vendendo messaggi di prosperità a breve, ma invitando all’impegno per costruire condizioni di sviluppo, libertà, equità sociale e progresso sull’orizzonte di qualche anno.

La svolta, sostiene Rifkin, è attesa tra il 2030 e il 2050.

In quale direzione, dipende da tutti noi.

C’è poco tempo, ma c’è ancora tempo per riflettere, decidere, agire.

Mettendo insieme ragione e competenze, restituendo un senso alla politica come concreta realizzazione degli ideali e non scontro emotivo tra tribù contrapposte.