Dopo l’emergenza sanitaria ci vuole un progetto di futuro

Vedere in lontananza l’uscita dal tunnel non significa aver trovato la strada.

Ora che il contagio sembra placarsi, che l’emergenza sanitaria pare prossima a chiudersi, si anima la discussione sulla “fase due”. Quella che lentamente, con aperture a macchia di leopardo, nella moltiplicazione di misure precauzionali, allenterà la stretta. Quella che metterà alla prova la capacità di adottare comportamenti improntati alla prudenza, ancora soggetti al dovere del distanziamento sociale, in forme che consentano la ripresa produttiva e un minimo di vita di relazione, di espressione corporea, di riaccostamento alla cultura e alla cura del corpo.

La mente non potrà rilassarsi, perché tutte le azioni con cui cercheremo di recuperare la nostra compiuta dimensione nelle sue articolazioni esistenziale, professionale, affettiva, ludica, saranno condizionate dalla paura del virus: del suo riaccendere focolai di pericolo.

Inevitabilmente, dall’angoscia del dramma sanitario transiteremo ai travagli del collasso dell’economia.

Ma qui sta un punto cardine del nostro futuro.

Come non potremo ritornare ai comportamenti ante COVID-19, così l’economia non potrà rincorrere i paradigmi che la guidavano prima della crisi.

Il mondo sta repentinamente cambiando e non sarà più come lo conoscevamo.

Scriveva Alessandro Baricco, in un suo brillante articolo, che il mondo è guidato (ancora) da un’intelligenza del Novecento. Concordo. Manca una classe dirigente del XXI Secolo.

E oggi (dal momento in cui si avvierà la ripartenza del tessuto industriale e commerciale) la sfida impone la gestione di un cambiamento radicale e generale.

Sconfiggeremo il COVID-19 (speriamo del tutto e al più presto), ma dobbiamo esser pronti a prevenire e combattere altre insorgenze virali ad alto impatto.

Questo richiede investimenti nel sistema sanitario, ma anche nelle procedure di controllo dei movimenti e dei contatti (senza cancellare i diritti alla privacy).

Quindi: strutture di medicina avanzata e di ricerca, nuove tecnologie di tracciamento e informazione, innovazione legislativa.

Ma anche revisione dei criteri di aggregazione umana. Difficile che il futuro possa contemplare i raduni di massa: forse è finito il tempo degli stadi stracolmi, delle adunate nelle piazze, dei grandi concerti sui prati.

E altrettanto: la spinta all’inurbamento selvaggio, con le periferie metropolitane ad altissima densità demografica, dovrà invertire la rotta. Perché lì la disperazione sociale, intrisa di miseria e ambizioni frustrate di popoli fuggiti dalle lande disperse del mondo, non è solo un orrore etico, ma anche un potenziale bacino di contagi.

Si possono fare mille esempi di quel che cambierà: il turismo, la somministrazione di cibo e bevande, i criteri di mobilità individuale e collettiva, la diffusione del telelavoro, la digitalizzazione dei servizi (a partire da quelli pubblici), l’impulso a un nuovo salto in avanti nella robotizzazione delle attività di produzione diretta, la formazione on line (da quella di base a quella specialistica e professionale), la distribuzione degli eventi di sport e spettacolo (inclusi quelli a maggior valenza culturale) e molto altro.

Pensiamo ai valori abitativi. Credo che la domanda di residenzialità subirà profonde mutazioni. Le famiglie, ammaestrate dalla lunga permanenza a casa e dal timore che tale situazione potrebbe ripetersi nel corso della vita, cercheranno sistemazioni che offrano: uno spazio attrezzabile a ufficio mobile (collegabile in remoto per il lavoro, per lo studio dei figli); apertura verso l’esterno (terrazzi, cortili); maggiore indipendenza (meno appartamenti in condominio, più residenze autonome); vicinanza a negozi e servizi essenziali, senza eccessivo decentramento e isolamento; salubrità ambientale. Caratteristiche oggi difficili da reperire e abbinare ad altri valori non rinunciabili (stanza per i figli, due o più servizi, box, ecc). Questo prelude a forte turbolenza sul mercato immobiliare, tanto da farmi ritenere che l’accesso alla casa dovrà, in futuro, esser incanalato in contratti volti al riuso e a una maggiore mobilità: leasing più che acquisto, un po’ come già oggi sta accadendo per l’automobile. Un sistema che permetterebbe anche il passaggio ad abitazioni adeguate alle fasi di vita: per il singolo, per la coppia giovane, per il periodo con figli, per quello in cui si torna ad essere in due, per la vecchiaia. Un passaggio che implica la creazione di complessi immobiliari forti detentori di un patrimonio abitativo articolato da vendere in concessioni temporanee redditizie ma convenienti per gli utilizzatori e da manutenere e rinnovare progressivamente in linea con i progressi della bioedilizia e della domotica.

Ho soltanto provato a immaginare una rivoluzione settoriale, come molte altre verranno.

Tutto andrà immaginato e riprogettato nello scenario tecnologico ormai acquisito e in via di incessante evoluzione.

Accettando che alcuni settori dell’economia sono destinati a un declino inarrestabile e probabilmente veloce, mentre altri sono destinati a crescere.

Trovo assai inadeguato lo scontro sulle modalità di finanziamento della risalita. Titoli emessi a livello europeo sono certamente più forti (e di più immediata disponibilità) piuttosto che crediti scaturiti dal rafforzamento del bilancio UE, ma comunque i soldi arriveranno e saranno tanti: whatever it takes, secondo la ormai nota frase di Mario Draghi. L’Europa (come tutto il mondo) sarà inondata di liquidità: verso il reddito di chi l’ha perduto e verso le iniziative imprenditoriali.

Tuttavia, come sul breve periodo non ci saranno vincoli all’indebitamento pubblico, il problema non è recuperare qualche punto di PIL.

In ballo c’è e ci sarà molto di più.

Verrà sconvolto il modello di sviluppo.

Pensare di ripristinare quello bloccato dall’emergenza sanitaria è illusorio e suicida.

La storia insegna che dopo una grave caduta dei mercati tocca all’iniziativa pubblica rigenerare la domanda. La prospettiva di un grande piano di “ricostruzione” europeo (“un nuovo piano Marshall”, come si vaticina) è corretta e affascinante.

In tale direzione non sarà sufficiente che gli investimenti risanino e recuperino e potenzino strutture e infrastrutture che si sono rivelate inadeguate: sanità, reti viarie e autostrade dell’informazione.

Occorre che gli investimenti pubblici orientino tutto il mercato, generando domanda che traini anche gli investimenti privati.

Abbiamo l’occasione per la riconversione verde dell’economia. Il green new deal timidamente approvato in sede comunitaria può diventare il faro nella rotta per la crescita sostenibile.

Intorno alla riconversione della produzione energetica, con l’abbandono progressivo, irreversibile e veloce dei combustibili fossili, vanno ridisegnate le coordinate della società del futuro.

Innescando dinamiche che agevolano lo sviluppo in logica di sostenibilità non solo ambientale, ma pure sociale, riducendo il gap nella distribuzione dei suoi frutti tra le varie componenti professionali, generazionali, territoriali. In una dialettica economica nella quale tramonta la finanziarizzazione esasperata a favore dell’investimento produttivo in beni e servizi.

Per questo accanto all’azione di governo della transizione pare necessario che le migliori risorse e intelligenze vengano chiamate a concorrere a un progetto di futuro di lungo periodo. I politici sono condizionati dalle scadenze elettorali, gli amministratori delle società pensano al bilancio annuale (quando non alla “trimestrale”): entrambi hanno visioni limitate, a corto orizzonte.

Circa due anni fa formulai un auspicio per il nostro Paese. L’articolo è ancora visibile sul mio sito (http://giorgioperuzionarra.it/2018/08/04/il-nuovo-rinascimento/)

Proponevo per l’Italia di raccogliere i migliori cervelli e le migliori competenze del Paese: imprenditori, amministratori pubblici, professionisti, politici illuminati, urbanisti, economisti, artisti, sociologi, ecc. Poiché la prospettiva disegnata apre ad una nuova leadership culturale del nostro Paese, sarebbe bello battezzarlo il “Club del Nuovo Rinascimento”.

Non un gruppo di pensatori votato alla filosofia del possibile ma una risorsa di intelligenza collettiva, scientifica e umanistica, per tracciare il progetto strategico di rilancio dell’Italia. Divenendo la fonte di ispirazione per il programma di un governo che guarda al medio periodo e supera la logica delle emergenze e del prossimo appuntamento elettorale e che seguiterà a fornire materiali per la sua attuazione ed evoluzione.

Credo che siano mature le condizioni per creare un simile laboratorio di idee a livello europeo.

Se è vero che una delle chiavi per un futuro migliore è evitare che l’urbanizzazione degradi le metropoli a megalopoli ingovernabili e pericolose, la dimensione della città media europea, carica di storia, cultura, radici, valori è il luogo più adatto a definire nuovi modelli di vivibilità urbana. Modelli che implicano interventi multistrato: di strutture, infrastrutture, istruzione, organizzazione, cultura. Modelli che costituiranno essi stessi un prodotto complesso e pregiato da vendere a livello mondiale.

Accordarsi sulla creazione della rete di prossima generazione (5G) è quasi facile, se paragonato all’impegno di rendere le città accoglienti per tutti quelli che vogliono viverci.

La consapevolezza della portata della sfida impone che venga giocata a livello europeo, perché nessuno Stato nazionale potrà vincerla davvero. Non sarà un gioco a somma zero. Se affrontato mettendo in competizione sistemi nazionali, i più forti potrebbero sopravvivere, ma ne usciranno più fragili dinanzi alle potenze maggiori: la Cina, gli USA, prime tra esse, ma anche i colossi transnazionali come Amazon, Google, Facebook, Apple, Alibaba, e altri meno noti.

Se, invece, risorse e progettualità avranno una dimensione continentale, le sinergie sapranno guidare l’offerta dal lato della domanda (prevalentemente collettiva), generando accumuli e moltiplicatori di accelerazione della crescita senza tentazioni inflazionistiche. L’unico modo, peraltro, per rientrare gradualmente dall’espansione dei disavanzi statali originati dal finanziamento della “ripartenza”.

La task force affidata dal governo Conte a Vittorio Colao è una buona scelta, ma soffre di essere finalizzata all’organizzazione e progettazione della “fase due” e dal confinamento in ambito nazionale.

Se l’Italia vuole avere un ruolo in Europa – candidandosi, coma la sua tradizione storica merita, alla leadership culturale di un “nuovo Rinascimento” – affianchi alla battaglia sugli Eurobond la proposta di creare un think tank europeo per dotarsi una visione di futuro da tradurre in progetti di crescita sostenibile.

Non dimentichiamo che le grandi svolte sono sempre nati da grandi idee e da grandi movimenti di consenso a obiettivi che univano cambiamento delle condizioni materiali a valori ideali. Fu così per la ricostruzione dopo il secondo dopoguerra, per la nuova frontiera kennediana, per l’uguaglianza di genere, per la lotta contro le discriminazioni. Non sarà diverso per salvare il pianeta e mitigare le disuguaglianze, verso un mondo a misura umana.

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