Costa Maya è il nome di un attracco turistico creato appositamente per l’ancoraggio delle grandi navi da crociera.
Vi giungiamo al mattino, poco dopo il levar del sole, affiancando altri due transatlantici che navigano su rotte simili alla nostra.
Il mare inizia a tingersi d’ogni tonalità dell’azzurro. In pieno pomeriggio sarà una luminosa distesa turchese, ravvivata da sfumature più scure e sbuffi bianchi di schiuma.
Un incanto.
Lasciato il terminal, fitto di negozi per turisti (invero dai prezzi piuttosto alti), dirigiamo in bus verso il villaggio di Chacchoben, antico insediamento Maya scoperto di recente e non ancora del tutto portato alla luce.
I Maya furono un popolo debole e sfortunato. Vivevano nella giungla, di quel che nella giungla si trova.
Come era bassa la vegetazione, anche i Maya avevano bassa statura. Agricoltori e cacciatori, furono invasi da popoli guerrieri, fino all’arrivo degli spagnoli. Il loro Dio principale, identificato nel sole, veniva raffigurato bianco e barbuto; i sacerdoti e i re erano ornati di piume di serpente. Fernan Cortes, il conquistador del Messico, che allora non aveva ancora preso quel nome, era bianco e barbuto e venne accolto come personificazione del dio solare. Gli spagnoli vedevano nell’immagine del serpente il simbolo del demonio.
Volontà di dominio, brama di ricchezza e simbologia religiosa scatenarono la furia dei colonizzatori e in breve, complici le malattie importate dall’Europa, gli indigeni Maya vennero quasi totalmente sterminati.
Ne sopravvivono piccole comunità nei villaggi della costa Maya, ancora legati alla loro lingua e alle loro tradizioni, a vivere mangiando mais e frutta e gli animali della foresta, compresi iguana, scimmie e serpenti.
A Chacchoben si possono vedere le piramidi funerarie, parzialmente restaurate nella foresta. Nel sito è ben evidente l’organizzazione della vita antica, con lo spazio per il mercato e le costruzioni celebrative. Molte montagnole indicano la presenza di altri templi, ancora ricoperti di vegetazione e detriti.
Di notevole interesse è la varietà delle piante che si alzano a fecondare la giungla.
Alberi da frutta, altri velenosi le cui radici sono avvinte agli alberi della medicina, in una sorprendente simbiosi tra il male e il suo antidoto. Poi alberi da cui trarre una poltiglia che vale per creare una specie di chewing gum da unire al mais fermentato o da impiegare per legare il cemento.
Palme con le cui foglie si costruivano (e ancora lo si fa) tetti per le capanne.
Tutte queste informazioni le dobbiamo al buon Moysia, simpatico e attento nel suo ruolo di guida del nostro gruppo di gitanti.
Il gioco di sfumature verdi e gialle tra il fogliame, al perenne cambiare della luce del cielo,
I tronchi, da cui partono sciarade di radici affioranti o nascoste, sono lisci e duri o scavati e anneriti, con nidi di termiti, quando non cavi a celare l’acqua che arriva dal sottosuolo.
La visita scorre veloce, poi il bus ci riporta alla base.
E qui, risalendo sulla nave, il nostro sguardo si ferma, rapito e ammaliato dalle onde di un turchese via via più intenso, in attesa del tramonto.












