Mio papà somigliava a Paul Newman

Così sembrava a me. Forse solo a me. C’è una vecchia foto di mio padre giovane, con i capelli corti e dritti sulla testa. Ha gli occhi chiari. Come quelli di Paul Newman. Sinceri e intelligenti, per nulla sfuggenti. Mio papà aveva la carnagione scura, a contrasto con l’azzurro delle sue iridi, ma in quella foto biancoenero l’illuminazione gli fa sembrare anche le guance e la fronte più pallide. Resto convinto: somiglia a Paul Newman.

Mio papà lavorava sodo e lo si vedeva raramente a casa. Avevo poche occasioni di giocare con lui. Solo qualche volta mi portava sulla sua bicicletta la domenica.

Quando cominciai a essere grandicello mi portava con sé al circolo della bocciofila. Lui gareggiava con gli amici; io guardavo, poi trovavo una pista libera e provavo a bocciare con le mie sfere leggere di plastica compatta.

Lui beveva il chinotto e qualche volta ci provavo anch’io, però ero ancora quasi bambino e il più delle volte ripiegavo sull’orzata.

Quanto sia stato importante per la mia formazione, per la mia vita, lo compresi soltanto quando un terribile male lo portò via a soli 62 anni. Fino ad allora la mia vita poteva considerarsi una lunga vacanza: nessuna vera responsabilità affettiva, la possibilità di seguire le mie inclinazioni, nessun disegno per il mio futuro.

Quando se ne andò dovetti preoccuparmi di seguire mia madre. Con il suo pessimismo rischiava di precipitare in una definitiva fase di depressione. Riuscii a salvarla, ma mai a cambiare la sua visione cupa del mondo.

Dall’influenza di quella paura per il mondo mi liberai faticosamente. E fu l’esempio silenzioso di mio padre a consentirmelo.

Lui aveva una grande fiducia negli altri. Perfin troppa e si prese delle belle fregature da presunti amici.

Lo vidi con la faccia scura e lo sconcerto sul volto solo una volta. Ero ancora bambino, ma lo ricordo bene.

Lui era membro di “commissione interna” nella fabbrica dove lavorava. Era un operaio professionale, iscritto al PCI e alla CGIL. Aveva organizzato lo sciopero per il contratto. Erano stagioni di lotta sindacale molto dura. Dopo tre giorni di sciopero compatto, il quarto giorno mio padre si trovò solo, mentre tutti i suoi compagni, senza dirgli nulla, rientrarono al lavoro, cedendo alle pressioni del “padrone”.

Mio padre non pianse, almeno non davanti a me. Ma la sua espressione recitava dolore e rabbia per quello che avvertì come un tradimento. Non poteva sopportarlo. Si licenziò, cambiò fabbrica (era un valente operaio professionale e all’epoca, anche se “politicamente segnalato” si trovava lavoro perché l’economia girava a pieno ritmo).

Mio padre aveva fatto il partigiano a diciotto anni e aveva rischiato la vita. Quando gli chiedevo, curioso, come fosse la guerriglia contro i tedeschi, lui mi raccontava dell’amicizia con i suoi compagni, che avevano pochissime munizioni e cercavano di evitare gli scontri a fuoco. Non mi descrisse battaglie, non rivelò se aveva dovuto uccidere qualche nemico. Quel che mi ripeté due volte fu il racconto di quando catturarono un coniglio (o forse era un gatto?) e lo arrostirono sulla legna. Finalmente potevano mangiare, in montagna si campava di fortuna.

Quando entrava in un bar, dopo dieci minuti, mia papà aveva già iniziato a conversare con qualcuno, anche se non ci aveva mai messo piede prima. Forse, come lamentava mia madre, era un po’ superficiale e qualche volta rischiava brutte figure. Ma era buono, intelligente e tutti quelli che lo conoscevano gli volevano bene.

Ricordo come fui orgoglioso quando – avevo sei anni – mi portò con sé al corteo del primo maggio. Bandiere rosse e cori. Credo che anche lui fosse orgoglioso di avere un figlioletto che partecipava con interesse a un rito collettivo del popolo che voleva riscattarsi e ottenere riconosciuti i propri diritti.

Lui mi insegnò la sensibilità e l’attenzione alle vicende collettive, alle dinamiche sociali.

Lui mi insegnò che fraternità vuol dire comprensione e rispetto, non falsa gentilezza, non condiscendenza verso comportamenti irresponsabili.

Io feci il ’68 e lui, ch’era rimasto comunista riformista, che viveva la passione politica come pratica del buon senso e della mediazione, non mi rimproverò mai la mia giovanile ubriacatura, tutta intellettuale, nell’estremismo.

Compresi che aveva sempre avuto ragione. Non sul piano concettuale, non sulle teorie. Io studiai più di lui, imparai a leggere l’evoluzione sociale, arrivai a interiorizzare mediazione e moderazione pur in una tendenza alla rivoluzione come cambiamento storico non lineare, che nulla c’entra con la violenza.

Lui aveva ragione nel comportamento.

Feci mio il suo ottimismo.

Quando morì scrissi per lui una poesia.

Ricordando la sua educazione a guardare avanti a pensare che “si può” (molto prima che Obama coniasse lo slogan Yes we can), a praticare il coraggio di decidere, a non fuggire dinanzi ai problemi e alle svolte, scrissi questi versi, che conservano, per me, intatto valore:

Che pure ho imparato dal tuo sguardo franco,

dal tuo andare incontro al domani,

come affrontare la Città,

vedendo l’Uomo capace di camminare

anche con il vento nelle orecchie,

a tenere e non temere la linea del destino.

Perché mio papà somigliava a Paul Newman, ma era molto di più che una opaca immagine di un grande attore.

E se quando rivedo le interpretazioni di Paul Newman, c’è un’emozione particolare che mi attraversa il cuore e la mente, la ragione non sta solo in quei personaggi forti e contradditori che sapeva interpretare.

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