Dove nasce l’ondata populista/sovranista e come superarla

Il crescente successo dei movimenti populisti e sovranisti viene spiegato sempre più spesso facendo ricorso ai criteri della psicologia comportamentale o, in ogni caso, sul piano del sentimento di massa, quasi che tutto riposi sulla prevalenza di reazioni pulsionali alla percezione di pericoli (sentiti come tali anche quando non reali).

Così la mano dura contro l’immigrazione sarebbe la risposta alla sensazione che gli stranieri possano non solo invadere il territorio ma anche violentare e travolgere usi, costumi e cultura indigeni.

Queste analisi si limitano a valutare gli effetti di fenomeni che derivano da altre radici, scambiando le cause con atteggiamenti collettivi che sono certamente riconducibili ad automatismi mentali che confluiscono in passioni e si alimentano di identità di appartenenza. Analisi insufficienti, restando a valle di ciò che quegli effetti ha provocato.

Quasi sempre le spiegazioni di psicologismo sociale invitano gli avversari del populismo sovranista a comprendere le ragioni delle pulsioni securitarie per fornir loro risposte di segno diverso. Cioè a inseguire i vincitori sul loro terreno, dimenticando che la pulsione pretende soddisfazione immediata e privilegia le scorciatoie, rifiutando la complessità e la mediazione.

Invece la temperie storica è assai complessa, esige articolazione di scelte e mediazioni, esercizio del pensiero speculativo. Se non si riuscirà a dare coscienza della complessità come inevitabile percorso per non soccombere al declino (sociale e individuale) ogni battaglia è perduta e la società sarà condannata a frantumarsi fino a esplodere nel vortice del particolarismo che soffoca e impedisce ogni progetto evolutivo.

Per riuscirci, occorre comprendere come siamo giunti a questo punto.

A scatenare l’ansia sicuritaria non sono gli immigrati (pochi o tanti, sono anch’essi un effetto) ma alcuni radicali mutamenti nelle dinamiche che segnarono lo sviluppo nel ventesimo secolo (con derivazioni sin dalla rivoluzione industriale nata nel secolo precedente).

Tre di essi sono materiali, il quarto sovrastrutturale ma intimamente legato a quelli materiali.

I fattori causali sono strettamente intrecciati, in una coerenza storica che non è solo sincronica ma anche logica. Per questo li indico secondo una gerarchia di valenza.

Al vertice individuo la finanziarizzazione dell’economia. Il volano del valore, che l’industrialismo fondava sulla produzione di beni, si è spostato sul versante del mercato finanziario, nel quale le aspettative sostituiscono le transazioni di beni reali.

Poi viene la caduta dell’intensità di lavoro nella formazione del capitale. Razionalizzazione organizzativa, automazione, robotizzazione, hanno diminuito la quantità di lavoro umano necessaria nella produzione di beni (e ormai anche dei servizi) e disarticolato i processi produttivi, con la tendenziale estinzione dei grandi complessi che occupano nello stesso luogo molte migliaia di lavoratori.

Al terzo posto, parallela e quindi conseguente al mutamento appena citato, si determina la redistribuzione dei ruoli produttivi a livello mondiale. Dopo l’emergere dei NIC (Paesi di nuova industrializzazione), si affermano nuove grandi potenze, in grado di produrre non solo quantità ma anche qualità, in virtù della loro densità demografica, della loro disciplina, delle capacità finanziarie concentrate: la Cina, l’India. A sfidare i grandi del ventesimo secolo: USA, potenze europee (associate non troppo saldamente nell’UE), il Giappone, la Russia (già Unione Sovietica). La produzione industriale si sposta a Oriente, cambiando drasticamente il peso dei grandi competitori sul mercato globale.

Da ultimo, in ordine di tempo ma come corollario quasi inevitabile ai primi due fenomeni, si afferma la prevalenza del contenuto seduttivo a quello funzionale nella determinazione delle scelte di consumo.

Vale la pena soffermarsi su questo aspetto.

Con una produzione che eccede il bisogno di consumo, la spinta alla sostituzione, alla sovrapposizione, al possesso superfluo diventa decisiva per la collocazione delle merci.

Le tecniche promozionali si affinano e, grazie alla pervasività della comunicazione digitale, fanno ampio e crescente ricorso alla profilazione: per proporre vendite toccando tasti dei quali si conosce la sensibilità dei destinatari, per riconfezionare merci capaci di incontrare i gusti del pubblico.

Nella nuova situazione, finanziarizzazione e passaggio del potere di mercato dal produttore al mediatore, spingono alla concentrazione. Pochi grandi colossi, forti del predominio tecnologico e della massa di capitale posseduto, dominano il mondo, ben più degli Stati nazionali.

Intanto l’esplosione dei consumi, l’imitazione dei modelli di vita dispendiosa impattano sull’ecosistema, con il CO2 che compromette l’equilibrio climatico, la deforestazione, le crisi idriche e di siccità, l’urbanizzazione caotica, le massicce migrazioni.

Le guerre e i conflitti etnici si innestano su questo tessuto.

Le dinamiche produttive e distributive polarizzano le condizioni sociali individuali. Il ceto medio si assottiglia, favorendo ristrette cerchie di ricchi sempre più ricchi e allargando l’area della povertà.

La povertà percepita, inoltre, è ben più vasta di quella assoluta, giacché l’impossibilità di accesso a consumi superflui viene sentito come privazione dei desideri e l’impoverimento relativo viene vissuto come marginalità sociale. A questo sentimento concorre il venir meno di parte dei servizi pubblici, compressi dai deficit statali.

Le dinamiche descritte precipitano sulla vita quotidiana. Non è più vero che i figli avranno una vita migliore di quella dei padri, scatenando la frustrazione e la rabbia degli uni e degli altri.

Come si vede, non è l’ingresso di migranti a togliere il lavoro e a turbare la quiete dei Paesi occidentali. Né il loro afflusso potrà essere bloccato da misure repressive e di controllo se non si interverrà sulle cause che lo determinano.

Concentrarsi sulle misure di contenimento degli effetti dei fenomeni richiamati può forse mitigarli ma non impedirà che essi si ripropongano, aggravandosi nel tempo.

La crisi nata nel 2008 ha radici strutturali che non sono state risolte con la ripresa congiunturale degli ultimi anni. In Italia come nel resto del mondo, anche se per il nostro Paese debolezze di fondo del tessuto economico rendono più acute le difficoltà.

Nasce forte l’esigenza di un programma politico capace di incidere sui fattori che stanno imprimendo allo sviluppo i segni della catastrofe ambientale e dell’ineguaglianza sociale.

Per esigenze di giustizia e di conservazione del pianeta, per restituire una speranza al futuro dell’uomo.

Dinanzi alla complessità dei problemi l’orizzonte strategico dovrà riempirsi di interventi specifici, mirati su traguardi parziali, prestando attenzione alla loro coerenza con il disegno generale.

L’utopia positiva verso cui tendere è un mondo nel quale le immense potenzialità della tecnologia e della scienza siano incanalate a garantire un contenuto etico allo sviluppo. L’uso assennato, razionale e illuminato delle risorse può offrire cibo, salute e istruzione a tutta la popolazione mondiale, arrivando anche – tramite la diffusione della cultura dell’integrazione e della moderazione – a frenare gli opposti disastri demografici della denatalità e della sovrappopolazione. Soltanto così l’incontro tra culture diverse si potrà risolvere in cooperazione e scambio, favorendo la pace e aumentando la sicurezza internazionale e interna ai singoli Paesi.

A contrastare il predominio dell’economia di carta su quella reale possono valere interventi fiscali, da concordare almeno a livello UE, tali da incentivare gli investimenti in produzioni coerenti con la sostenibilità ambientale e sociale.

Altrettanto un sistema di tassazione, incentivi, commesse per grandi piani a indirizzo pubblico, potrebbe favorire attività a intensità di lavoro qualificato, bilanciando e accompagnando l’automazione e robotizzazione di quello povero e usurante.

Per riequilibrare i poteri di scambio andranno avviati programmi di infrastrutture e riqualificazione edilizia e ambientale, guidati da direttive pubbliche e controllati attraverso rendicontazioni sociali puntuali e diffuse nel corpo della società civile.

Appare decisivo suscitare una riflessione collettiva sui modelli di consumo. Si tratta di una sfida culturale da cui dipende il destino del mondo. Bisogna spostare i comportamenti dal consumo effimero e dissipativo a quello utile, ambientalmente sostenibile, orientato alla valorizzazione della persona umana. Dall’avere più cose nel più breve tempo possibile all’avere utilità per sé e una buona vita di relazione.

Oggi si pone la realizzazione personale nell’esibizione dell’avere, nella visione che propugno la realizzazione diviene potenziamento dell’essere, passando dall’omologazione imitativa dell’influencer di turno alla gioia dell’espressione del sentimento interiore.

Su questa strada è fondamentale l’investimento in cultura, dalla scuola alle espressioni artistiche, dal turismo consapevole alla coscienza dei valori del territorio naturale e costruito.

Tutto questo è ciò che riassumo sotto l’emblema del “Nuovo Rinascimento”. Un governo della complessità che punta a garantire “la vita buona” ai cittadini e, grazie ai beni e servizi che la rendono praticabile, a riqualificare l’offerta produttiva, rendendo competitivo ciò che è utile e bello.

Come arrivare a un obiettivo tanto ambizioso?

Costruendo il programma con il concorso delle intelligenze, delle aspirazioni e delle energie di quei segmenti e settori della società che rifiutano di farsi travolgere dalla deriva di quella maggioranza veloce, impulsiva, insofferente, irosa e talora violenta che detta ritmi e contenuti sui social, che anima il rifiuto di confrontarsi con la complessità brandendo le proprie convinzioni armate dalla paura e dai particolarismi.

Scienziati, pensatori, professionisti, imprenditori, artisti, amministratori pubblici, singoli intellettuali che siano interessati e disponibili a costruire insieme un grande progetto di salvezza del Paese e del pianeta potranno essere mobilitati a stilare il manifesto del Nuovo Rinascimento. Intorno al manifesto e per dare corpo al suo spirito sarà costituito un “Think tank” (un gruppo esperto, aperto e dialogante con i movimenti che agiscono nella società) che scriverà il programma e ne seguirà le fasi di realizzazione.

Movimenti legati a singole istanze saranno sostenuti per la realizzazione di “single issue”: nel settore ambientale, culturale, dei diritti civili e sui vari aspetti della vita sociale. A titolo di esempio: per contrastare l’espansione del consumo dissipativo (e l’indirizzo inefficace delle risorse sociali e individuali) vanno valorizzate le associazioni dei consumatori; per la riqualificazione ambientale del territorio vanno sostenuti i comitati locali; per far crescere la cultura dell’essere vanno potenziati i circuiti del benessere e gli spazi per l’espressione sportiva e artistica dei giovani.

La sintesi di queste iniziative, la valorizzazione dei loro successi come dimostrazione che le cose possono essere affrontate e risolte positivamente, facendone elementi che concorrono ad allargare il consenso intorno al programma generale, dovrà trovare forme politiche nuove.

Tutto questo chi lo può fare, visto che partiti e movimenti sono impegnati nella polemica spicciola, nelle reciproche invettive, nel porre l’orizzonte di misura del consenso non oltre il prossimo appuntamento elettorale?

Non si esagera a considerare epocale il passaggio storico nel quale siamo entrati. Se al suo sbocco vi sarà l’implosione (che significa moltiplicazione dei conflitti, declino, forse nuove guerre) o una nuova fase di prosperità e di pace dipende anche dall’emergere (purtroppo per nulla scontato) di una politica “alta” che dia consapevolezza ai popoli e li guidi sulla via del progresso.

Non si scorge, nel panorama internazionale, nessuna personalità che risponda al bisogno di leadership e carisma capaci di accendere volontà e fantasia di impegno per un mondo migliore.

Per farla emergere occorre uscire dalla nostalgia di quel che non è più attuale: non la socialdemocrazia del novecento, non il liberalismo. Tanto meno – è ovvio dalle premesse di questo articolo – la finta modernità del sovranismo o del nazionalismo regressivo.

In un mio breve racconto ho schematizzato, in versione letteraria, il mio pensiero. (in questo stesso sito: http://giorgioperuzionarra.it/2018/08/20/coltivare-r-o-s-e/)

C’è bisogno di un movimento che sappia “coltivare ROSE”, nel senso di:

programma strategico: Rinascimento Orizzonte Sviluppo Europa;

passione ideale: Ragione Ottimismo Sentimento Empatia;

azione sociale: Rete Organizzazione Solidarietà Equità.

Un sogno?

Certo il dibattito in quel che resta della sinistra italiana, oscillando dal rimpianto di Berlinguer al grigio fascino di Macron, è deprimente.

Credo, tuttavia, che nel malessere dei nostri tempi vibri una forte domanda implicita di buona politica, a mantenere viva la voglia di poter guardare al futuro.

Se il mio scritto darà un piccolo contributo a suscitare riflessioni e a rinnovare contenuti e modi della politica, vorrà dire che il sogno non appartiene solo a me.

Perché quando si lancia un sassolino a scuotere il mare in bonaccia non si fa altro che evocare il montare dello onde, quello che porterà energia e aria frizzante, carica di profumo salmastro a riempire i polmoni, a deliziare gli occhi, a far volare la fantasia.

Qualcuno verrà a coltivare ROSE?

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