La previdenza sociale è la speranza del futuro. Si risparmia per avere certezza di risorse quando non avremo più le forze per procurarcele lavorando.
Siccome da giovani, in una naturale illusione di eternità istantanea, si preferisce impiegare quel che si guadagna per progetti immediati, la previdenza obbligatoria fu una conquista sociale di civiltà che portò, con l’accantonamento di parte dei salari o dei ricavi professionali, alla salvaguardia delle condizioni di vecchiaia, malattia, infortunio, disoccupazione, vedovanza.
Il sistema previdenziale è un meccanismo a orologeria. Il suo disegno viene realizzato in un momento diverso e lontano da quello del suo effetto. Se la società muta rapidamente, rischia di rivelarsi squilibrato, inadeguato, deficitario, economicamente insostenibile.
Poiché la società e l’economia videro profondi, rapidi e violenti cambiamenti avviati dalla seconda metà XX secolo e divenuti impetuosi negli anni recenti, il sistema previdenziale italiano ha mostrato nel tempo crepe e fratture che imposero interventi radicali.
Negli anni novanta si aprì un aspro confronto tra i sostenitori del sistema retributivo (ancorare le pensioni alle ultime retribuzioni) e quelli del sistema contributivo (calcolare le pensioni sul monte contributivo versato nella carriera lavorativa).
Altro aspetto rilevante fu l’età pensionabile in relazione alla speranza di vita.
Ancora oggi polemiche e conflitti sono vivacemente aperti su questi temi.
Partecipai a quelle discussioni.
Lo feci cercando di capire il funzionamento del sistema pensionistico, al di là delle ideologie e delle convenienze di gruppo e/o personali.
Compresi che il sistema retributivo (come un’età pensionabile reale media decisamente bassa) aveva una radice storico-sociale prima ancora che una valutazione di sostenibilità economica. Era il risarcimento che la società offriva alle coorti che avevano sostenuto con il proprio lavoro la ricostruzione post-bellica e lo sviluppo dell’industria di massa.
Ma già negli anni novanta questa equazione non funzionava più. Si avvantaggiavano di quel sistema soprattutto gruppi diversi da quelli per i quali era pensato.
Bisognava cambiare per evitare il tracollo.
Ricordo che, allora, svolgevo il ruolo di dirigente sindacale CGIL. Fui mandato a tenere assemblee nelle fabbriche per discutere della questione pensionistica, in una stagione nella quale la politica esaminava varie ipotesi di riforma.
Poiché avevo studiato e volevo contribuire a diffondere consapevolezza e ragione e non fare propaganda, iniziai i miei interventi (usando, ovviamente, il gergo sindacale) dicendo:
“compagni e amici, il problema della pensioni non è un problema dei padroni, è un problema nostro.” E poi via, a spiegarne i termini e a cercare una via equa, socialmente ed economicamente sostenibile, per la riforma.
Molta acqua è passata sotto i ponti, molte riforme sono state varate, stop and go, scaloni e scalini, fratture generazionali e quant’altro. Grandi rabbie, grandi passioni, grandi promesse elettorali.
Tutto questo sarebbe stato assai meno drammatico se la riforma Dini avesse riportato al sistema contributivo per tutti.
Buttare la croce addosso a Elsa Fornero è ingeneroso e oggettivamente immotivato. Drastiche misure erano inevitabili. Fecero male e non risolsero solo perché rimasero l’unica riforma del governo Monti sul piano dell’economia, mentre sarebbe stato necessario inserirla in un coraggioso piano di rilancio e revisione delle politiche di aiuti alle imprese.
Non voglio entrare nelle dispute attuali, se non per osservare che, nuovamente, non può esistere un sistema previdenziale che regge se l’economia arranca, che la prima vera riforma previdenziale è garantire alti tassi di occupazione e buoni livelli di sviluppo del PIL.
Credo di fare cosa utile, ripubblicando una mia ricerca che spiega, con la forza dei dati oggettivi ricavati dalle statistiche reali estratte dagli archivi INPS, la situazione alla base delle riforme (di quelle già varate e di un’altra che dovrà rimettere le cose a posto).
Una ricerca che trovò, allora, l’apprezzamento del professor Onorato Castellino, il maggiore esperto della materia dell’epoca e della professoressa Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, di genere e della povertà.
0 Commenti